mercoledì 24 febbraio 2010

Prossimo venturo


«Scusi, una domanda».
«Dica».
«Lei ha fiducia nel futuro?»
«Be', se mi sforzo di non badare al fatto che tutti pagano tangenti, che i controllori sono amici o parenti dei controllati, che i politici sono eletti dalla 'ndrangheta, che gli amministratori locali sono pappa e ciccia con imprenditori e mafia, che si parla ancora di esercito del bene contro il male, che i telegiornali sono peggio di quelli di Goebbels, che tra un mese mi scade il contratto, che non avrò mai una pensione, che ci sono più guerre di quante ce ne siano mai state, che il 60% dell'Italia è a rischio frane, che ogni giorno aumenta di più la sensazione di essere presi per il culo... Insomma, se mi sforzo di non badare a tutto questo... No, non ho fiducia nel futuro».
«Finalmente un ottimista».

venerdì 12 febbraio 2010

IL CANDORE E GLI UOMINI NERI


C’è un cane che vaga, solo, tra quelle che un tempo erano case e che ora sono monconi, come speranze troncate, come romanzi mai finiti, un cane scuote la coda polverosa e annusa l’aria, ciondolante, solo, polveroso. I gioielli di un tempo, qui, sono sotterrati, cadaveri scomposti e tre metri di terra. Già, la terra. La terra che si scuote come un brivido, come un conato, come una ribellione che miete vittime innocenti. I gioielli di un tempo. C’erano bambini e sogni, qui, c’erano studenti, musicisti; c’erano padri e madri, c’erano nonni e storie da raccontare, c’erano ladri, c’erano macellai, fruttivendoli, orafi, professori. C’erano, c’erano e adesso non ci sono più. Un tremito della terra, angosciante madre vendicativa, ha spazzato via tutto. E adesso, coloro che c’erano, non ci sono più. Ci sono state le lacrime, ci sono state mani tese, braccia aperte. I re ed i principi di tutta la Terra hanno abbandonato il loro impero per un giorno. Ci sono stati, ma, adesso, non ci sono più. La polvere si posa e resta il buio. Come incubi tremendi, è nel buio che gli uomini neri si muovono, e ridono, e brindano e hanno brindato, gli uomini neri che hanno venduto il mondo. Gli uomini neri che sono sempre esistiti, gli uomini neri che oggi si affollano là, sulle carcasse di bambini e anziani, per cibarsi di resti, piccole mani, piccoli piedi, da trasformare in mattoni, in cemento, in soldi; gli uomini neri che ancora oggi come ieri, ancora oggi più di ieri, ci fanno paura, ci rendono fragili, ci fanno chiedono: perché, com’è possibile, cosa ci succede? Eppure andiamo, per la nostra strada, oltre le macerie del mondo, dell’Aquila, di noi stessi, spaventosamente capaci di piangere ancora, e di sorprenderci per la voglia di urlare, di dire no, di raccattare, tra la polvere, una piccola briciola di candore. Il nostro candore, violentato, deriso, ucciso dagli uomini neri che vivono nell’ombra della nostra quotidianità.

giovedì 11 febbraio 2010

Facinorosi

Dopo i fatti degli ultimi giorni credo che sia più opportuna una serie di provvedimenti contro i facinorosi, che forse sono una piccola parte, certo, ma episodi del genere non sono più tollerabili. Il pugno duro è più che giusto. Stop alle trasferte, daspo, firma obbligatoria… Solo così, finalmente, riusciremo debellare il fenomeno della violenza in parlamento.

lunedì 8 febbraio 2010

IMPRESSIONI


È un'impressione mia, oppure oggi è più lunedì del solito?

giovedì 4 febbraio 2010

...

E basta.

mercoledì 3 febbraio 2010

UNA PER TUTTI, TUTTI IN UNA

Leggo con stupore che il calciatore Adrian Mutu non solo è stato squalificato in passato per cocaina, non solo deve una montagna di soldi ad Abramovic, non solo è stato beccato ancora una volta positivo a sostanze proibite (pare per dimagrire), ma, notizia di oggi, sarebbe pure coinvolto in uno scandalo sessuale. Sarebbe stato coinvolto, infatti, proprio ai tempi del Chelsea, in una relazione con la signorina nella foto a sinistra, che di nome fa Vanessa Perroncel e di mestiere fa la modella. In questi giorni si parla tanto di lei perché, ai bei tempi, era fidanzata di un giocatore del Chelsea, Wayne Bridge, ma sarebbe stata coinvolta in una relazione con John Terry, capitano del Chelsea e dell'Inghilterra; per questo, nel Regno si è arrivati a chiedere al CT Capello di togliere la fascia di capitano a Terry. Sempre in queste ore, viene fuori che pure l'islandese Gudjhonsen, ai tempi del Chelsea, avrebbe avuto una relazione con Vanessa Perroncel.
Essendo io tifoso del povero Toro, consiglierei a Cairo, al quale è sempre stata rimproverata l'assenza di un "uomo-spogliatoio", di contattare Vanessa: le sue doti di donna spogliatoio intorno a cui il gruppo si cementa appaiono indubbie e indiscutibili. Vogliamo Vanessa Perroncel team-manager subito.

martedì 2 febbraio 2010

L'ORA DELLE DECISIONI IRREVOCABILI

Credo sia giunto il momento per il PD di uscire dalla Binetti.

lunedì 1 febbraio 2010

L’Omino delle Gallerie

Di Gianni Somigli

Ieri pomeriggio ho preso il Frecciarossa per tornare da Milano a Firenze. Come mi capita ormai da più di un anno a questa parte un finesettimana sì e uno no. Il Frecciarossa, sì. Il treno “alta velocità”. Quei treni che vanno alla velocità della luce. Quelli che un biglietto andata e ritorno costa più di 100 euro. Quelli là.

Il treno parte regolarmente, alle 17. Il posto che avevo prenotato è occupato da una signora con un bimbo piccolo. Mi siedo da un’altra parte, senza fare polemiche. Io li odio quelli che fanno quel generi di polemiche, anche se hanno ragione. Una volta ho ceduto volontariamente il mio posto a una signora di colore che aveva due bambini piccoli e mi sono fatto il mio viaggio in piedi. Mi sono sentito un eroe dei nostri tempi. Gli altri, probabilmente, hanno pensato che fossi un coglione. Per quello che mi riguarda, quando vado a fare il biglietto, prendo sempre uno di quelli che chiamano “posti isolati”. Non perché sia particolarmente antisociale. Non solo, almeno. È che mi piace star comodo. Mi leggo il mio giornale, mi ascolto la mia musica. Se devo andare in bagno, non devo far alzare nessuno. E poi, la gente, quando ti si siede a fianco, non è che si regoli molto: il bracciolo in condivisione è una sorta di territorio di conquista da invadere in modo discreto ma deciso. Ecco perché voglio sempre un posto isolato. Perché sono un pacifista.

Dopo una decina di minuti, quando il treno eurosuperstar esce dal groviglio di binari nei pressi della stazione, ci fermiamo. Nemmeno ci bado. Succede sempre. Questione di precedenze, ho sentito dire. E poi mi sto ascoltando la radio sul cellulare. Ci sono le interviste del dopo partita. Le interviste del dopo partita le amo follemente. Per il loro squallore, per la loro ripetitività; tutti dicono sempre le stesse cose. Io le amo proprio per questo: perché sono così rassicuranti. Così, quando il treno riparte come uno di quegli elefanti feriti che ogni tanto si vedono nei documentari, non è che ci faccia particolarmente caso.
Viaggiamo per una decina di minuti a velocità ridotta. Se è velocità della luce, è la luce di una candela in una caverna. Tutto intorno, la Padania respira appena nel piattume incontrastato. Il treno si ferma ancora.

Le persone, che in questo caso sono catalogate come “viaggiatori”, iniziano a struffiare. Struffiare, in fiorentino, vuol dire soffiare in modo stizzito. Stiamo fermi un bel po’. Poi ripartiamo, ancora a velocità ridotta. Ci rifermiamo. Il brusio si trasforma in dibattiti aperti su quanto i treni facciano schifo, su quanto l’Italia faccia schifo, su quanto non sia possibile andare avanti così.
L’unica alta velocità che si riesce a notare è quella del capotreno, che dribbla domande e richieste manco fosse Roberto Baggio, passando a mille all’ora da uno scompartimento all’altro. La gente, se potesse, lo strozzerebbe. Lo ammetto: anche io, potessi, lo strozzerei. Ma cerco di mantenere un certo controllo distaccato, da viaggiatore ormai navigato vittima di un rassegnato ascetismo.

Arriviamo a Bologna con venticinque minuti di ritardo: «Ci scusiamo con la clientela, il ritardo è dovuto a una passeggera che ha tirato la leva di sicurezza sulla porta di salita». Io non sono un genio e non ci tengo ad esserlo. Frugo nel disordine lessicale della giustificazione del capotreno e mi pare che qualcosa non torni. Magari la passeggera ha tirato la leva almeno cinque volte. Non si può mai sapere, con questa teppaglia che c’è in giro. Quando ripartiamo da Bologna, sto già avvertendo chi di dovere che arriverò in ritardo: la coincidenza è saltata, dico. Chi di dovere non pare esprimere grossi traumi da notizia inattesa.

Dieci minuti e il treno si ferma ancora. Solo che intorno, stavolta, non c’è la rassicurante bassa padana. Stavolta c’è un tunnel lungo circa settanta chilometri. Se uno fosse claustrofobico sarebbe una vera pacchia.
Guardo dal finestrino: c’è una piccola nicchia con una porticina gialla e uno di quegli interfoni col pulsantone rosso con su scritto “SOS”, come quelli che ci sono in autostrada. La nicchia è illuminata da un neon.

Visto che sono uno che piglia le cose con pazienza, mentre gli altri colleghi naufraghi sul vagone della speranza non si danno pace e iniziano pure a sentire freddo, io invece non stacco gli occhi da quella porticina e mi immagino che là dentro ci viva l’omino delle gallerie. Uno di quelli, mi immagino, che per antisocialità o semplicemente per pacifismo hanno scelto di vivere in una casina non sopra, ma dentro una montagna, una casina con una porta gialla. È domenica pomeriggio, l’omino della galleria magari è seduto sul suo divano, dietro quella porta gialla, si sta guardando i servizi sulle partite, o sta leggendo un libro. Magari non sta facendo niente. Il treno sta fermo quasi mezzora sotto una delle montagne che divide la Toscana dall’Emilia e io sto mezzora a immaginarmi la vita dell’omino delle gallerie. Uno che non si chiede mai se piove o c’è il sole.
Il capotreno è scomparso nel nulla. Oppure passa così veloce che nemmeno si riesce a vedere. Io leggo un libro, penso all’omino delle gallerie e ogni tanto lascio andare un sospirone di solidarietà coi miei compagni di sventura.

Ripartiamo dopo un bel po’, passa il capotreno e gli chiedo quante volte la signora abbia tirato il freno a mano. Quello mi guarda male. C’è da capirlo, poveraccio. Sono i rischi del mestiere, del resto. Fare il capotreno di un Frecciarossa è uno dei mestieri più pericolosi del mondo.
Arriviamo a Firenze con un’ora di ritardo. Fuori fa un freddo cane. Non ho perso la coincidenza: ho perso le coincidenze. E vabbè. Mi fermo a uno di quei baracchini che dovrebbero fornire il meraviglioso e scintillante servizio clienti per chi butta un centone la settimana. Un signore davanti a me chiede: ma il treno per Milano ha davvero quindici minuti di ritardo?
Sì, risponde l’addetto.
Quindici? Davvero? insiste il signore.
Se non le bastano quindici, può sempre prendere quello per Roma, che ne ha cinquantacinque.
Io alzo le mani e mi arrendo di fronte a questo dialogo. Semmai chiederò il modulo per il rimborso che non otterrò mai su internet. E poi hanno chiamato all’altoparlante, con quella voce robotica che dice “Viaréggio” con la E aperta, un treno che fa al caso mio. Non vorrei aggiungere qualche altro minuto di ridicolo alla mia vita di viaggiatore domenicale.

Il regionale non andrà a duemila metri al secondo. Fa i suoi onesti ottanta chilometri orari, sbuffa e scricchiola come un vecchio di cento anni, ma va. Mi viene in mente che è davvero uno schifo, però. Mio fratello mi ha raccontato che in America, dopo un tot minuti di ritardo a prescindere dal motivo, ti risarciscono al 100%. Quello che odio in situazioni come queste è che ti senti del tutto impotente. Ti incazzi, certo, e ti incazzi con qualcuno che è messo lì per sorbirsi i tuoi insulti ma che non può farci un bel nulla. Ti incazzi e chiedi il rimborso? Provaci, se ti riesce. Ottenere un rimborso dalle Ferrovie è più difficile che trovare un capello vero sulla testa di Berlusconi. E poi ti incazzi le prime volte, pure le seconde, forse le terze; poi, non ti incazzi nemmeno più.

Ehi, ma io sono un giornalista: devo scrivere di questo scempio!
Scendo dal treno e sono a casa con più di un’ora e mezzo di ritardo.
Mi accendo una sigaretta e penso: sono un giornalista, devo scrivere “notizie”. Il giorno in cui il Frecciarossa arriverà in orario, quella sì che sarà una notizia. Allora, magari, ne scriverò due righe. Forse.