giovedì 26 febbraio 2009

Se in pentola bolle il nulla


Siamo o non siamo, in Italia, sotto un regime? Da più parti, da più anni, si levano voci e accuse, manifesti e manifestazioni. E se oggi Di Pietro addita l’attuale Governo Berlusconi, come non ricordare la piazza sventolante bandiere di Forza Italia, Lega, AN e UDC di fronte a un palco su cui campeggiava a caratteri cubitali: “Contro il regime”.

Come spesso accade, com’è sempre accaduto e come continua ad accadere, le parole, quando vengono usate come simboli, o slogan evocativi, perdono il loro significato, si attenuano, si svuotano. Regime riporta alla mente quel signore in camicia nera e dalla zucca pelata, quei venti anni di omicidi e dittatura che, ancora, qualcuno si ostina a difendere con banalità come “furono fatte strade, furono fatti ponti, fu fatto il Concordato”.

L’uso smodato del termine “regime” lo ha reso docile, inoffensivo: se tutto è regime, allora niente è regime. E non vale più neanche la pena di andare a controllare se le accuse siano fondate o meno: “regime” non bolla più il destinatario dell’aggettivo, ma il mittente, che per l’uso stesso della parola diviene automaticamente populista, illiberale, illogico.
Spesso si sente dire che la politica viaggia quattro o cinque passi indietro rispetto alla società e al mondo reale, insomma, alle persone che essa, la politica, dovrebbe essere chiamata a rappresentare. Riflessione vera, ma senza sbocchi: chiedere alla classe politica, soprattutto quella attuale, di anticipare e indirizzare, oltre che rappresentare, le volontà e le voluttuosità popolari, sarebbe davvero troppo.

C’è un altro aspetto che colpisce l’attenzione e fa riflettere, e che si ricollega direttamente a quello che si è analizzato in precedenza.
La politica, o meglio i politici, fanno questo uso indiscriminato, spesso scellerato, di parole. Parole ridondanti, spesso assordanti, dal significato etimologico catastrofico. Parole che vengono buttate in mezzo un po’ per confondere le idee, un po’ perché si è in quella che viene definita “campagna elettorale permanente” e quindi i toni devono restare alti all’infinito. Parole che quindi diventano contenitori lessicali senza contenuto, soprattutto quando sono urlate ora da un palco, ora da un seggio, oppure da uno schermo. Parole vecchie. Non più rappresentative.

Ma è il caso di fare un ulteriore salto di qualità, perché questo è il punto vero, quello che può rispondere alla domanda con cui si è aperta questa riflessione. Siamo o non siamo, in Italia, sotto un regime? Forse non sono solo le parole ad essere vecchie. Ed esse sono rappresentative, sì, ma di un mondo che non esiste più. Il sistema italiano odierno si fonda su categorie politiche attuali? La risposta è: no.

Torniamo alla nostra parola iniziale: “regime”. Se Di Pietro utilizza un giorno sì e l’altro pure la parola “regime” per definire il Governo, ottiene un impatto opposto a quello voluto.
“Regime” evoca una sola cosa: il Fascismo. Ed è evidente che nelle condizioni attuali non siamo sotto il Fascismo. È evidente che non siamo sotto una dittatura, se io stesso posso esprimere liberamente il mio pensiero.
Qui sta l’inghippo: non siamo certo sotto un “regime”. Almeno lessicalmente. Regime è una parola anacronistica, che rappresenta un determinato periodo storico che fortunatamente è finito, pur tra i rimpianti dei nostalgici, e che si spera non tornerà mai più. No, non siamo sotto regime perché regime indica quella dittatura mussoliniana.
La democrazia, quindi, non è a rischio? Anche questa è una formula piuttosto abusata e discretamente svuotata, secondo quel meccanismo su cui si è discettato poco fa. Ma la formula può ancora rendere. Dunque, è a rischio?
Non vivere “sotto regime” non basta perché una democrazia sia pienamente libera. Che il Governo attuale sia autoritario, è un dato di fatto: solo che non si usa più la parola “autoritario”, che ha una connotazione tanto negativa quanto veritiera. Oggi il Governo viene definito “decisionista”: questo permette di connotare un’azione molto discutibile in modo positivo, così da creare consenso attraverso il consenso.

La forza delle parole non è da sottovalutare. Durante il Fascismo furono abolite le parole straniere in nome di quella stessa italianità che attualmente viene ribadita quando si difendono interessi intrecciati stile Alitalia.
Oggi, con le parole si gioca in modo più subdolo, più fintamente blando e, per questo, più pericoloso. Chiediamoci: perché una legge in materia di testamento biologico viene definita legge sul “fine vita” e non legge sulla “morte”?
Sono differenze appena osservabili, appena rilevabili, ma che nell’era della comunicazione come quella che stiamo vivendo, possono davvero segnare la differenza tra la libertà e la non libertà. La differenza tra un “regime” e un “regimismo”.

Le persone vengono ubriacate da questo casino di significati e significanti: spesso non hanno strumenti intellettuali per capire, per analizzare, per farsi un’idea ed infine per scegliere, soprattutto attraverso il voto ma non solo.
E questo è il dato di fatto, o uno dei dati di fatto: perché in questo deserto semantico dove ognuno può dire quello che vuole e il suo contrario, dove ognuno può smentirsi nell’arco di un giorno o due, dove ognuno può saltellare da una parte politica all’altra sventolando bandiere, alla fine nessuno ci capisce più nulla e si finisce per sostenere la persona di cui ci fidiamo di più. Non per cosa dice, ma per come lo dice, e per l’immagine che riesce a costruirsi. E si sa chi ispira più fiducia: chi è forte. O almeno, chi dà quest’immagine di sé: chi riesce a passare da autoritario. O come decisionista.

Ecco perché non siamo sotto un “regime”, ecco perché non viviamo un Fascismo: perché le distanze e le contrapposizioni ideologiche non esistono, ognuno si proclama democratico, riformista, cattolico, laico, rivoluzionario, socialista, conservatore, liberale e così via. Ognuno dà all’altro del dittatore. Ognuno si sottrae dal parlare di contenuti: la semantica in cantina, regna il lessico. Le parole non sono più simboli, ma pentole vuote su cui battere coi mestoli per alzare un baccano che rende incomprensibile qualsiasi cosa, che confonde.
Siamo o non siamo sotto regime?
No. Non c’è bisogno di regimi, cioè di dittature vecchia maniera.
La democrazia è a rischio?
No. Ma solo perché la democrazia non esiste, perché le scelte fatte dal demos sono scelte libere solo nella forma, non nel processo di formazione, che si basa sul clangore metallico delle parole usate come pentole vuote.

mercoledì 25 febbraio 2009

Marco Travaglio al Puccini - "Promemoria": credeteci, è successo davvero


Quindici anni tra stragi e tangenti, ladri e delinquenti, ville e ruberie, magistrati e massonerie


Di Gianni Somigli

Il 27 gennaio è il Giorno della Memoria. E si sa. A metà febbraio, al Puccini, si sono svolti invece i Pomeriggi e le Serate del Promemoria. Ironico il Destino, che avvicina queste due date. Quantomeno per gli effetti. Molto simili. Nel quasi-bene e, ovviamente, nel male.
Perché il Vaticano è sempre il Vaticano, e Marco Travaglio non è mica il papa. Per celebrare degnamente il Giorno della Memoria, infatti, è stata revocata la scomunica ai lefevbriani. E fino a qui, diremmo anche chi se ne frega. È che qualcuno di loro, tali lefevbriani, non è che proprio ami e apprezzi gli ebrei. Anzi: le camere a gas non sono esistite. Milioni di morti? Ma quando mai. E non era esattamente il Giorno della Memoria, ma un po' dopo: ed ecco che "in memoria di" nascono come funghi velenosi leggi atte ad estirpare rumeni e clandestini, e "saremo cattivi", con le ruspe a buttar giù ghetti moderni, fuoco, fiamme, un po' come a Gaza, sempre in memoria di. Come dire: se la Memoria è questa, fermi tutti.

Tra il Giorno della Memoria e i Pomeriggi del Promemoria ci sono somiglianze impressionanti. E qualche dissonanza negli effetti.
Il Promemoria, lo spettacolo teatrale (e libro) di Marco Travaglio, è una dettagliata e pungente ricostruzione. Niente di più, niente di meno. Fatti che messi scarnamente in fila raccontano gli ultimi quindici anni della nostra cara Italietta. Fatti, non supposizioni; sentenze e deposizioni, non sogni e supposizioni. Reali, così reali da sembrare irreali.
Personaggi ultranoti ed eccellenti sconosciuti, che si intrecciano e brulicano come mosconi, come personaggi cupi di un quadro di Bosch. Tra Tangentopoli e le stragi, tra la P2 e la mafia, tra sedicenti uomini di stato, magistrati buoni e cattivi, Craxi, Berlusconi, D'Alema.

Il solito Travaglio, dirà qualcuno. I soliti sospetti, non il film, bensì Berlusconi, Dell'Utri, Cuffaro e Mastella. Sospetti? No: fatti, sentenze e prescrizioni. Incredibile ma vero, c'è stato un tempo in cui i processi si facevano. Credeteci, non è una leggenda! Ci sono stati tempi scevri da lodi, legittimi sospetti e immunità. Pure da alfani vari.
I fatti quelli sono. Marco Travaglio mica è il Messia: è uno, un giornalista, che appiccica Promemoria sui frigoriferi che sono le nostre coscienze, forse le nostre memorie, ammesso che coscienze e memorie siano là dentro e siano congelate, ammesso che quegli scomparti non siano vuoti.

Lo abbiamo detto. Tra il Giorno della Memoria e i Pomeriggi del Promemoria ci sono somiglianze impressionanti, ma qualche dissonanza, almeno negli effetti.
Perché se un vescovo "negazionista" dice cazzate, viene indicato per quello che è: un imbecille. Un segnale preoccupante, da non sottovalutare; ma, almeno, suscita ancora sdegno. Ancora per un po'.
Nel caso del Promemoria travagliesco non ci sono lefevbriani.
Perché? Semplice, non ce n'è nessun bisogno!
Nascono strade intitolate a Craxi, che ride da morto nel pantheon del PD (e pure in quello del PDL, incredibile!). Gelli va in tv. Di mafia non parla nessuno. Le leggi sono fatte non da deputati ma dagli imputati. Controllore e controllato coincidono.
Insomma, dormite tranquilli: non è mai successo nulla. Era solo un brutto sogno, non è successo nulla! E se non è successo nulla, non c'è nulla da negare.

E poi, uno come lui, uno come Travaglio, mica è il messia, mica è il papa. È bensì un losco figuro, noto giustizialista, quasi comunista.
È Travaglio il negazionista! Il lefevbriano, qua, è lui; è lui che si oppone alla Storia, che la rivede e che la nega, raccontando fantasiosamente di stragi e di tangenti, di ladri e delinquenti, ville e ruberie, magistrati e massonerie!Il solito sospetto, crudeltà del destino. Altro che Promemoria: puntateci una pistola alla testa. E finalmente potremo morire, dormire, nulla di più, e con un sonno dirsi che poniamo fine al cordoglio e alle infinite miserie naturale retaggio della carne, soluzione da accogliersi a mani giunte. Morire, dormire, sognare forse. Esattamente come ieri, esattamente come oggi.

mercoledì 18 febbraio 2009

«Ma la Chiesa è un'altra cosa» - Conversazione con don Enzo Mazzi, della Comunità di Base dell'Isolotto


I diritti e il Vangelo. I politici e la magistratura. I sondini e le ingerenze. Beppino Englaro e il generale Cadorna. La finitezza della vita e la riappropriazione della morte. Il buio e un fiammifero. I valori e la violenza. Le domande e le risposte.

Di Gianni Somigli

Sconvolto, nauseato, rattristato, incredulo. Così mi sento negli ultimi tempi. Un po' come d'autunno sugli alberi le foglie. Frustato da folate gelide di ipocrisia, graffiato da raffiche di dichiarazioni politiche, vescovili, giornalistiche. Dibattiti presunti, confusione reale. Pressappochismo imperante.
Domande e dubbi, tanti. Risposte poche, rarissime. Ma forzatamente salde, disperatamente radicate, come se ogni presa di posizione, ora da una parte, ora dall'altra, a mo' di cacciavite dessero, una volta, poi una volta, poi un'altra ancora, una stretta per rinsaldarle, queste convinzioni maldestramente arruffate, disperatamente salde. Sorvolando sul giusto e lo sbagliato. Ignorando se quella luce che seguo sia un faro o una lucciola, un fuoco fatuo.
Le mode del momento sono segnate dalle parole. Espressioni che si appiccicano ovunque, almeno fino alla prossima moda, fino al prossimo momento, vomitate come titoli, medaglie al disvalore, etichette. Ultima moda, ultimo momento, ultima medaglia: "Libertà di coscienza". Un po' come: "Dialogo". Un po' come: "Riforme". Parole. Contenitori lessicali senza contenuto.

Sconvolto, nauseato, frastornato. Mi chiedo: davvero succede tutto questo, ora e qui, nel mio Paese, un Paese civile, e occidentale, con un Governo "liberale", baluardo di democrazia, di libertà, di cui esso è il Popolo... Ma com'è possibile? Dov'è lo scherzo?
Brancolo in un'aspra selva selvaggia e forte, in preda al dubbio e all'incredulità. Macino passi lenti e incerti. Inciampo. Sobbalzo. Ogni ramo nasconde domande destabilizzanti. Dal marcio dei tronchi fetidi non nascono foglie, ma minacciose e stridenti insinuazioni intellettuali. La situazione si aggrava, di ora in ora: vi prego, infilatemi nel naso un sondino, pretendo la somministrazione forzata di frasi sensate. Di sobrietà e di equilibrio.
L'epicentro del marasma si fissa intorno a una parola: ingerenza. Anzi no: Chiesa. Neanche: Fede. Forse, però. Perché nel buio della selva avverto che sì, è una parola, ma no, non riesco a distinguerla. È una parola e sono mille. Eccola là, la vedo, nascosta dietro le dita secche di ramo scarno. Una parola di mille parole. Cangiante. Cupa. Contenitore lessicale strabordante contenuti e contraddizioni.

Logica, mi dico. Ci vuole logica. Ma Fede e Logica si escludono a vicenda, per definizione. Eppure, ci sono proposizioni, non dogmi, ma prese di posizione, che per quanto mi ci arrovelli, rimangono paradossi. Indifendibili passaggi illogici che si basano sul nulla. Nemmeno sulla Fede.
"Solo Dio decide quando finisce una vita". Ma allora è Dio che ha messo un sondino nello stomaco di Eluana, attraverso il suo naso, non i medici? Non è stato l'Uomo, ma Dio? No, sai, perché invece a me pare Dio avesse già deciso diciassette anni fa.
E questo è solo uno dei paradossi che non riesco a spiegarmi. Sono ingenuo. In altri tempi mi avrebbero chiamato Candido. O Idiota.

Devo cercare qualcuno con cui parlare. Dicono che il confronto arricchisce. Credo che dipenda dalla persona con cui ci confrontiamo. Nel mio caso, dovrei trovare qualcuno che pensi. Che conosca le situazioni, che sappia come stanno le cose, ma che non parli "per partito preso". Né per compiacermi.
Qualcuno che conosca i sentieri di questa selva oscura, dove non sono affatto solo, ma dove brancola una mormorante folla silenziosa: persone che si guardano in cagnesco, riempiendo gli angusti spazi col rumore di denti digrignanti e di urla: "Assassini! Assassini!".

Mi guardo intorno. Cerco, scruto, guardo. Per quanto mi impegni, vedo solo bandiere sventolate, vessilli di colori diversi portati alti da una massa informe di personaggi di chissà dove, chissà quando.

Quando ormai mi vedo costretto all'eterno sonno della ragione irragionevole, leggo, su un sito o forse su un giornale, di un noto prete di Firenze, o meglio dell'Isolotto. Uno di quei sacerdoti che ti fa ancora voler bene alla Chiesa, almeno come concetto. Sì, ho deciso: è con lui che voglio parlare. È a lui che voglio porre le mie domande. E le mie domande sulle sue risposte.
Voglio presentarmi da lui, da uomo dubbioso, senza accondiscendenze reciproche, senza compiacimenti, senza preconcetti e pregiudizi. È così che mi presento. Salve, don Enzo Mazzi. Sono Gianni Somigli, giornalista, ma più di tutto sono uno che ha tanti dubbi e che cerca qualche verità intorno a cui costruire qualche certezza; verità, dico. Per ora va bene con la minuscola. Un passo alla volta.

Don Mazzi, tutti invocano il silenzio. Per me, è ipocrisia. Io sento come non mai il bisogno di parlare e di ascoltare. Ma ho le idee sempre più confuse. Ci sono ragionamenti che mi sembrano così illogici, ma che condizionano, anche contro la loro volontà e le loro credenze, la vita di milioni di persone. Pure la mia. Le posso esporre qualcuno di questi angosciosi e tormentati punti interrogativi?
Amo e apprezzo gli interrogativi. Fin dal Seminario, quando insieme ad altri, ad esempio don Lorenzo Milani mio compagno di banco, cercavamo spiragli di speranza nel granitico blocco della teologia dogmatica e pastorale. Ambedue abbiamo trovato ostacoli a non finire, ma anche una grande libertà, grazie all'incontro con tante persone in ricerca, oltre tutti i dogmatismi, sia religiosi che laici. È questa la comunità di base. Anche quella dell'Isolotto. Gente in ricerca tenendosi per mano.

Bene. Dunque: chi sceglie quando finisce la vita, Dio o l'Uomo?
Nella domanda non le sembra che ci sia un allineamento alla certezza, data per scontata sia nel dogma che nel senso comune, che Dio e l'uomo sono realtà separate e quasi contrapposte? Alla frase "Dio o l'uomo", io preferisco "Dio e l'uomo", e meglio ancora "Dio e l'uomo e la donna". E implicita nella domanda vedo un'altra certezza: la separazione e contrapposizione fra la vita e la morte. Non sarebbe il caso di metterci un grosso interrogativo?

Ma sì, uno più o in meno non fa differenza ormai. Quale insegnamento devo trarre dalla storia di Eluana?
Che la morte fa parte della vita. Ecco il messaggio che ci ha offerto e continuerà a donarci Eluana. Beppino Englaro ha raccolto questa consapevolezza, quelle precise parole dalla figlia "nel pieno della giovinezza", e ha speso la vita per liberare queste parole dagli impedimenti culturali, contribuendo a farle divenire senso comune, capaci di informare positivamente.C'è una sottovalutazione, forse un'incomprensione, del messaggio di Beppino Englaro. La vita è sacra in quanto parte di un tutto in divenire, che comprende finitezza e morte.La cultura sacrale, invece, separa la vita dalla sua finitezza. La vita viene sacralizzata come dimensione astratta, contrapposta alla dimensione altrettanto astratta della morte. Il Vangelo è un grande messaggio di liberazione dalla cultura sacrale (sacro = separato), che contrappone Dio all'uomo, la vita alla propria finitezza.

La finitezza fa parte della vita. Negare in atti pratici tale finitezza, prolungando una vita effettivamente finita attraverso quel famoso "sondino", non è come sfidare Dio, negando una decisione divina?
Il sondino in sé è una cosa positiva: è una protesi. Ci sono pareri diversi se sia terapia medica o sostegno vitale. Ma per me questo è secondario.Il sondino diventa sopruso etico, pratica violenta e accanimento terapeutico, se viene imposto dai medici o dalla legge. Nessuno può impormi con la forza di mangiare o di bere, col cucchiaio, con l'imbuto, tanto più col sondino. L'imposizione dell'alimentazione è una violenza inaudita, tanto più grave quando viene praticata a persone incapaci di difendersi.Il problema nasce quando per infermità non si è in grado di esprimere il rifiuto dell'alimentazione forzata. Ci vuole un tutore credibile. Beppino Englaro ha testimoniato e dimostrato come la figlia, prima dell'incidente, avesse chiaramente manifestato la propria volontà di rifiutare l'alimentazione se si fosse trovata nella condizione di coma irreversibile o di vita vegetativa. Tutti i gradi della magistratura, che hanno indagato a fondo, gli hanno creduto. Certo, possiamo dubitare, perché anche la magistratura non è mica infallibile. Quello che non è giusto è però trasformare il dubbio in fanatismo: continuare a imporre a Eluana l'alimentazione con la forza sarebbe stata una violenza.

Don Mazzi, sicuramente è colpa mia. Sicuramente sono un ingenuo. Ma sembra solo a me, o tutte queste vicende hanno un odore di mera strumentalizzazione politica?
C'è la strumentalizzazione, certo. C'è però anche un'ancestrale paura della morte priva di positiva elaborazione.

Si parlava prima della finitezza della vita. Ma perché la Morte fa così paura? Mi chiedo e le chiedo: perché la paura della Morte è così utile, e a chi?
Siamo stati abituati fin da piccoli a considerare la morte come punizione per il peccato. Una specie di condanna a morte dell'umanità intera divenuta peccatrice, un'esecuzione capitale che solo Dio ha il diritto di eseguire. La mostruosità distruttiva della violenza nasce da lì, dalla mostruosità di quella "condanna a morte", dalla violenta espropriazione della nostra responsabilità.

La invito a riflettere insieme a me. Credo alle parole di Bagnasco: la Chiesa non interferisce con la vita politica italiana, ha detto. Poi leggo di telefonate "tra le due sponde del Tevere", di interventi, scomuniche e anatemi, di plausi al Governo e dispiacere per il Quirinale. Sono ingenuo, sì. Ma...
Il Vaticano è uno Stato in tutto e per tutto. Il papa è un monarca assoluto. In Italia, poi, è uno Stato nello Stato. La Chiesa è un'altra cosa. La Chiesa siamo tutti noi che scegliamo di esserlo. Ce l'ha insegnato il Concilio e prima ancora il Vangelo.

Politici, preti, papi, medici, attori, giornalisti, passanti: tutti, pur invocando il solito silenzio, hanno detto qualcosa su questa vicenda. Una vicenda al cui centro è stata messa Eluana. Secondo me, il vero protagonista, invece è Beppino Englaro.
Io mi sono fatto una mia idea. Un po' romantica, magari tardo-risorgimentale. Per me Beppino Englaro è un vero eroe. Diciassette anni di battaglie. In confronto, Cadorna era un organizzatore di picnic, e Porta Pia fu una passeggiata di salute: oggi le cannonate vengono dall'altra parte della breccia. Qual è il suo pensiero verso il mio eroe, Beppino Englaro?
Trovo una mirabile consonanza fra il messaggio del Vangelo, o di altre religioni come il buddismo, e il messaggio di Beppino Englaro, che testimonia l'impostazione di vita di sua figlia. Ma la consapevolezza di Eluana non è piovuta dal cielo.Nei tempi in cui lei era nel pieno della sua giovinezza, il tema della riappropriazione della morte come parte della vita stava diffondendosi sull'onda lunga dal vento del '68. Nell'archivio storico della Comunità dell'Isolotto, ho ritrovato un numero del Notiziario (251 - giugno 1990) dal titolo "La morte fra tabù e riappropriazione: il tema della morte nella Bibbia e nel percorso comunitario di ricerca esistenziale".Ci animava una sorprendente consonanza con i pensieri di una giovane Eluana: in quei tempi, aveva vent'anni. E non accadeva solo a noi. Nel Notiziario, era riportata una poesia, scritta in occasione della morte di una cara amica, Pina, da un giovane della comunità cristiana di base di Pettorano sul Gizio, a noi molto vicina.Tra l'altro, dice: "Vennero gli uomini dalla faccia rugata e dagli occhi insinceri. A regalare le scatole vuote con dentro l'estrema bugia: "Pina è morta". Ci eravamo detti: "Quello che conta è non morire prima di morire. Non venderemo mai la vita per vivere". Mai abbiamo dato retta. Mai abbiamo perso tempo a dare ascolto agli gnomi dagli occhi insinceri e la faccia mascherata da dottori, preti, maestri e senatori. Mai. Entrai ad ascoltarti ancora, nella stanza dove ti avevano rinchiusa durante l'agonia. "Non è questa la morte che mi fa paura, ma quella che mietono le mummie del potere". È una dimostrazione che l'elaborazione della morte come parte della vita e non come punizione per il peccato stava lentamente penetrando negli ambienti più aperti della società, sia laici che religiosi.

Il suo giudizio su Beppino è piuttosto simile al mio, allora...
La solidarietà verso di lui si esprime per lo più in forme di pietà umana per la sua sofferenza. Ma penso che questo sia una riduzione del suo valore. La lucida consapevolezza di Eluana, testimoniata dal padre, portata con forza dentro la società, testimoniata e difesa anche a prezzo dell'accusa infamante di omicidio, legittimata dalla magistratura, obbliga l'etica tradizionale a interrogarsi. Ma, soprattutto, aiuta tutti noi, la società intera, nella nostra ricerca esistenziale, spirituale e religiosa.Ci sono voluti quattrocento anni perché un papa, Wojtyla, riconoscesse che Galileo fu "sincero credente più perspicace dei suoi avversari teologi (cardinali e papi) in campo etico". Eluana è tutti noi, è ogni donna e ogni uomo che cerca la liberazione.Si dovrà aspettare altrettanto perché sia riconosciuto il grande illuminato amore per la vita insito nella scelta di Eluana e di suo padre, e perché sia scoperta la miopia dei loro avversari?

Eh no, don Mazzi, come dicono nei film polizieschi, qua le domande le faccio io. Anche se, le dico la verità: per me, se le cose vanno avanti (o indietro) di questo passo, non ci vorranno quattrocento anni ma almeno otto o novecento. A andare bene.Ringrazio don Mazzi, mi congedo dopo la ricca e fitta chiaccherata. Non so bene se ho risolto i miei dubbi. Avverto però una sensazione leggera, come se fossi un po' più ricco di prima.Certo, non avrò la mappa che conduce a "riveder le stelle", forse. Tuttavia, tra le mani stringo un bel fiammifero. Continuando a fare e a farmi domande, magari riesco ad accenderlo. E nel buio, magari, riesco a trovare il sentiero. A uscire da 'sta cavolo di selva. Con le mie gambe, con la mia testa, con le mie risposte.

lunedì 9 febbraio 2009

Infiniti orizzonti e larghe prospettive



Davanti a tutto questo, quello che dobbiamo provare è un grande orgoglio. Perché siamo davvero magnifici, siamo un popolo unico, strepitosamente a sé stante. Ma soprattutto, dobbiamo essere fieri della nostra, tutta e solo nostra, capacità inesauribile di stupire noi stessi. Perché quando pensiamo: ok, abbiamo raggiunto il limite, più di così è impossibile, noi invece no, noi invece no.
Quando pensiamo: peggio di così non è possibile.
E invece, invece no.
Negli ultimi mesi, per non dire anni, quante volte ci è capitato di pensare: peggio di così non si può. Davanti all’ennesima barzelletta, all’ennesimo scivolone, all’ennesima smentita, all’ennesimo dietrofront, all’ennesimo decreto, all’ennesimo “golpe”, all’ennesima ennesimità, davanti all’ennesimo caso che ti fa cadere le braccia. No, peggio di così non si può. Non è possibile.


E invece sì, sì! Invece è possibile, sì! Incredibilmente, ogni qualvolta ci sentiamo arrivati, come se avessimo tagliato il traguardo finale di un demenziale percorso al ribasso, riusciamo ad allargare l’orizzonte. Anzi, a restringerlo. Stringi stringi stringi, infiliamo la testa in un buchino nero. Il nostro futuro è una sorta di buco di culo di uno scoiattolo, o di un toporagno; di un pettirosso, forse. Ma noi, NOI!, siamo un popolo caparbio. Quando ci mettiamo in testa qualcosa, la otteniamo. Sempre.


Ed è per questo che ci carichiamo sulle spalle smentite, decreti, dichiarazioni, dati, sondaggi, mafia, camorra, chiesa, sentenze, csm, derby, clandestini, morti, stupri, feriti, belle donne, esercito, comunisti, fascisti, alitalia, debito pubblico, barzellette sugli ebrei, malati terminali da vent’anni, poesie, bestemmie e bicchieri di vino, ci carichiamo tutto questo sulle spalle e prendiamo la rincorsa, da lontano, tappandoci gli occhi, e corriamo, corriamo, corriamo, poi spicchiamo un balzo, in avanti ma di spalle perché così è più complicato, allunghiamo le mani in avanti e pluff!, ci andiamo a infilare in quel piccolo buco nero dove tutto scompare e tutto sembra uguale, dove tutto sembra finire e iniziare, vivere e morire, tutto confuso e uguale a se stesso, un piccolo buco di culo di uno scoiattolo dove, crepi il mondo, noi ci infileremo, noi e tutto il nostro futuro, speranze, sogni e desideri e paure, terrori e tormenti, lanzichenecchi e giostre volanti, scuotiamo, scuotiamo la testa e vedrai che entriamo con la testa e poi con le spalle cariche di tutta l’Italia che è e che sarà.


Ma c’è da essere sicuri, sicuri al cento per cento, che una volta dentro al nostro nuovo mondo, una volta che ci saremo stabiliti dentro al nuovo universo a forma di intestino crasso e poi tenue di scoiattolo, o di colibrì, una volta lì dentro noi, magnifici esemplari, riusciremo a voler entrare con tutti i nostri problemi vecchi e nuovi, in un cazzo di buco di culo di un cazzo di batterio intestinale.


giovedì 5 febbraio 2009

Fuori dal coro: contro la strage, fatti, non belle parole




Fa quasi tenerezza la mobilitazione generale seguita al drammatico incidente di via Pistoiese in cui si sono spezzate tre giovani vite. Attori, giornali, politici, proprietari di locali più o meno noti, radio, stilisti: una massiccia campagna di sensibilizzazione rivolta ai più giovani, simboleggiata da un nastro nero che ha fatto la sua comparsa su molte auto e al polso di tanti fiorentini.

Un coro di voci importanti, che cerca di trasmettere un messaggio importante. Ragazzi, non esagerate: se dovete guidare, non bevete. E giù, una gragnola di discorsi all’insegna della morale: «Zero alcol nei pub», dicono i gestori di pub. Ancor meglio: «Zero alcol ai minorenni», che la macchina non la guidano. «Alcol test»; «Pene più severe»... E via e via.

Paga la repressione, magari unita al proibizionismo? Se, nonostante le leggi nazionali e le norme locali, siamo a questo punto, forse no. Certo, il controllo del territorio è fondamentale, anche solo come deterrente. Ma non basta. È evidente che non basta, ed è altrettanto evidente che non si possono piazzare posti di blocco in ogni strada.
È un fatto di cultura, si sente dire: vero anche questo, ma non basta. Perché è ovvio che è così. Bene, è un fatto di cultura: e quindi? Come si fa per cambiarla, questa cultura? Ci si limita ad abbaiare o facciamo concretamente qualcosa che si più incisivo dei soliti appelli e manifesti che non guarda nessuno?

Giusto sensibilizzare. Giusto promuovere progetti e campagne. Giusto tutto quanto, e politicamente corretto oltre ogni limite. Ma ancora più giusto è fare, insieme al dire.Navette e servizi adeguati di notte; bonus in termini di quattrini; strade finalmente sicure, senza buche e rotonde killer. Quello che serve sono proposte concrete. Perché è con la concretezza che si salvano vite. Con le parole, spesso, si fa solo bella figura.