Quello che vedete in cima alla colonnina qui di fianco, a sinistra, e che certamente riconoscerete pur non avendo mai letto un libro o un giornale in vita vostra, è uno dei cosiddetti "padri nobili" del giornalismo italiano. Nella foto è insieme all'altro padre. Nobile pure lui. Poi dice che le coppie dello stesso non funzionano e non vanno riconosciute. Due padri maschi: la Chiesa direbbe che è per questo che il figlio, il giornalismo, non è uscito fuori tanto sano.
giovedì 23 aprile 2009
Cento di questi giorni
Quello che vedete in cima alla colonnina qui di fianco, a sinistra, e che certamente riconoscerete pur non avendo mai letto un libro o un giornale in vita vostra, è uno dei cosiddetti "padri nobili" del giornalismo italiano. Nella foto è insieme all'altro padre. Nobile pure lui. Poi dice che le coppie dello stesso non funzionano e non vanno riconosciute. Due padri maschi: la Chiesa direbbe che è per questo che il figlio, il giornalismo, non è uscito fuori tanto sano.
giovedì 16 aprile 2009
Tra informare e allarmare, c'è di mezzo il Sismologo de Noantri
mercoledì 25 marzo 2009
Il Gioco dei Due Re
Leggo con rassegnazione che il "biotestamento" sta assumendo contorni grotteschi durante la farsesca, grottesca, pornografica votazione parlamentare.
Al fine di evitare altri "Casi Eluana", si vieta l'interruzione di alimentazione e idratazione forzata. Sono sbalordito. Nonostante mi chieda perché mi stupisca ancora. Nonostante mi chieda perché non abbia ancora chiesto l'asilo politico al Bhutan, dove il "Pil" è stato sostituito con il "Bil": Benessere Interno Lordo. In Italia è il Bhutan la notizia. Chissà come se la ridono, lassà nel Bhutan, di noi miseri, accondiscendenti italiani.
Leggo con interesse che nel Bhutan, che è sull'Himalaya, vige la monarchia. Il Re, quel pazzo, ha imposto la sua volontà sul suo popolo. Ha, cioè, introdotto i partiti, soprattutto quelli avversari, e obbligato a votare. Obbligato a votare liberamente. Sarà che lassù in cima a quei monti c'è l'ossigeno rarefatto. Il Re che impone la democrazia. Mah.
Qui da noi, tra le macerie e la polvere e i miasmi quotidiani, gli atti del Popolo della Libertà sono quasi esclusivamente divieti. C'è qualcosa che non torna.
Penso con forte astio interiore che se il Re del Bhutan impone la democrazia mentre il Re di Arcore impone che non posso nemmeno decidere se morire o no, qualcosa non torna. Oppure torna tutto, e tutti sono felici: la norma c'è e la Chiesa è contenta. Poi, se vuoi morire, muori a casa tua, di nascosto. Si fa ma non si dice. Come sempre, in Italia. Salviamo la faccia. Solo che la faccia fa schifo. E' un composto di cerone e lifting. E' un cimitero, è una nebbia malata e tossica, è un'epigrafe sconnessa.
Evviva il Bhutan forzatamente libero.
giovedì 26 febbraio 2009
Se in pentola bolle il nulla
Spesso si sente dire che la politica viaggia quattro o cinque passi indietro rispetto alla società e al mondo reale, insomma, alle persone che essa, la politica, dovrebbe essere chiamata a rappresentare. Riflessione vera, ma senza sbocchi: chiedere alla classe politica, soprattutto quella attuale, di anticipare e indirizzare, oltre che rappresentare, le volontà e le voluttuosità popolari, sarebbe davvero troppo.
La politica, o meglio i politici, fanno questo uso indiscriminato, spesso scellerato, di parole. Parole ridondanti, spesso assordanti, dal significato etimologico catastrofico. Parole che vengono buttate in mezzo un po’ per confondere le idee, un po’ perché si è in quella che viene definita “campagna elettorale permanente” e quindi i toni devono restare alti all’infinito. Parole che quindi diventano contenitori lessicali senza contenuto, soprattutto quando sono urlate ora da un palco, ora da un seggio, oppure da uno schermo. Parole vecchie. Non più rappresentative.
“Regime” evoca una sola cosa: il Fascismo. Ed è evidente che nelle condizioni attuali non siamo sotto il Fascismo. È evidente che non siamo sotto una dittatura, se io stesso posso esprimere liberamente il mio pensiero.
Oggi, con le parole si gioca in modo più subdolo, più fintamente blando e, per questo, più pericoloso. Chiediamoci: perché una legge in materia di testamento biologico viene definita legge sul “fine vita” e non legge sulla “morte”?
Sono differenze appena osservabili, appena rilevabili, ma che nell’era della comunicazione come quella che stiamo vivendo, possono davvero segnare la differenza tra la libertà e la non libertà. La differenza tra un “regime” e un “regimismo”.
E questo è il dato di fatto, o uno dei dati di fatto: perché in questo deserto semantico dove ognuno può dire quello che vuole e il suo contrario, dove ognuno può smentirsi nell’arco di un giorno o due, dove ognuno può saltellare da una parte politica all’altra sventolando bandiere, alla fine nessuno ci capisce più nulla e si finisce per sostenere la persona di cui ci fidiamo di più. Non per cosa dice, ma per come lo dice, e per l’immagine che riesce a costruirsi. E si sa chi ispira più fiducia: chi è forte. O almeno, chi dà quest’immagine di sé: chi riesce a passare da autoritario. O come decisionista.
Siamo o non siamo sotto regime?
No. Non c’è bisogno di regimi, cioè di dittature vecchia maniera.
La democrazia è a rischio?
No. Ma solo perché la democrazia non esiste, perché le scelte fatte dal demos sono scelte libere solo nella forma, non nel processo di formazione, che si basa sul clangore metallico delle parole usate come pentole vuote.
mercoledì 25 febbraio 2009
Marco Travaglio al Puccini - "Promemoria": credeteci, è successo davvero
Quindici anni tra stragi e tangenti, ladri e delinquenti, ville e ruberie, magistrati e massonerie
Di Gianni Somigli
lunedì 9 febbraio 2009
Infiniti orizzonti e larghe prospettive

Davanti a tutto questo, quello che dobbiamo provare è un grande orgoglio. Perché siamo davvero magnifici, siamo un popolo unico, strepitosamente a sé stante. Ma soprattutto, dobbiamo essere fieri della nostra, tutta e solo nostra, capacità inesauribile di stupire noi stessi. Perché quando pensiamo: ok, abbiamo raggiunto il limite, più di così è impossibile, noi invece no, noi invece no.
Quando pensiamo: peggio di così non è possibile.
E invece, invece no. Negli ultimi mesi, per non dire anni, quante volte ci è capitato di pensare: peggio di così non si può. Davanti all’ennesima barzelletta, all’ennesimo scivolone, all’ennesima smentita, all’ennesimo dietrofront, all’ennesimo decreto, all’ennesimo “golpe”, all’ennesima ennesimità, davanti all’ennesimo caso che ti fa cadere le braccia. No, peggio di così non si può. Non è possibile.
E invece sì, sì! Invece è possibile, sì! Incredibilmente, ogni qualvolta ci sentiamo arrivati, come se avessimo tagliato il traguardo finale di un demenziale percorso al ribasso, riusciamo ad allargare l’orizzonte. Anzi, a restringerlo. Stringi stringi stringi, infiliamo la testa in un buchino nero. Il nostro futuro è una sorta di buco di culo di uno scoiattolo, o di un toporagno; di un pettirosso, forse. Ma noi, NOI!, siamo un popolo caparbio. Quando ci mettiamo in testa qualcosa, la otteniamo. Sempre.
Ed è per questo che ci carichiamo sulle spalle smentite, decreti, dichiarazioni, dati, sondaggi, mafia, camorra, chiesa, sentenze, csm, derby, clandestini, morti, stupri, feriti, belle donne, esercito, comunisti, fascisti, alitalia, debito pubblico, barzellette sugli ebrei, malati terminali da vent’anni, poesie, bestemmie e bicchieri di vino, ci carichiamo tutto questo sulle spalle e prendiamo la rincorsa, da lontano, tappandoci gli occhi, e corriamo, corriamo, corriamo, poi spicchiamo un balzo, in avanti ma di spalle perché così è più complicato, allunghiamo le mani in avanti e pluff!, ci andiamo a infilare in quel piccolo buco nero dove tutto scompare e tutto sembra uguale, dove tutto sembra finire e iniziare, vivere e morire, tutto confuso e uguale a se stesso, un piccolo buco di culo di uno scoiattolo dove, crepi il mondo, noi ci infileremo, noi e tutto il nostro futuro, speranze, sogni e desideri e paure, terrori e tormenti, lanzichenecchi e giostre volanti, scuotiamo, scuotiamo la testa e vedrai che entriamo con la testa e poi con le spalle cariche di tutta l’Italia che è e che sarà.
Ma c’è da essere sicuri, sicuri al cento per cento, che una volta dentro al nostro nuovo mondo, una volta che ci saremo stabiliti dentro al nuovo universo a forma di intestino crasso e poi tenue di scoiattolo, o di colibrì, una volta lì dentro noi, magnifici esemplari, riusciremo a voler entrare con tutti i nostri problemi vecchi e nuovi, in un cazzo di buco di culo di un cazzo di batterio intestinale.
lunedì 12 gennaio 2009
Tra ragione e torto, c'è di mezzo il morto
Non che sia semplice, ma ogni tanto ci provo. E no, più che ci provo, e più che mi rendo conto che non solo non è semplice, ma che addirittura è quasi impossibile. Quasi senza quasi.
Capire chi ha ragione e chi ha torto è un esercizio intellettuale, prima che pratico. In alcuni casi, non è difficile. Almeno a primo impatto. Perché poi, se uno ci si vuol spremere un po’, nota variabili, postille, sfumature. E allora il giudizio non è più così netto. I confini si fanno più labili, il dubbio s’insinua, il cane si morde la coda. Nel mentre, nel frattempo, il problema persiste, insiste, si aggrava e si dipana.
Ragionare del sesso degli angeli era lo sport preferito mentre i comunisti mangiabambini invadevano i Paesi dell’Est europeo. E, alla fine, del sesso degli angeli se ne sa quanto prima se non meno; sempre nel frattempo, l’Unione Sovietica aveva invaso, ucciso, si era eclissata, era sparita.
Chi sostiene che Israele ha ragione, sbaglia. Chi sostiene che ha ragione Hamas, sbaglia. Quello che più fa incazzare, di tutti questi liberi sostenitori, è che ognuno sostiene qualcosa. E lo fa con toni tipici del depositario della verità. Lo sappiamo, lo sappiamo bene che in fondo quello è il mestiere più antico del mondo: far credere di sapere, far credere di essere in grado, far credere. Un po’ come una vecchia puttana egizia, o bizantina, o romana o greca o di oggi, che si vende come ciò che non è per far credere di avere ciò che non si ha.
Chi ha ragione, insomma, Israele o Hamas? Guardando le immagini in tv (poche) e sui giornali (un po’ di più) di bambini morti, i cui visi dilaniati e deformati dalle esplosioni, rotti, sanguinolenti, così orribili da non sembrare reali, guardando a queste istantanee dall’inferno non si può che sostenere la causa palestinese. La classica simpatia, o dovremmo chiamarla “empatia scaramantica”, che nasce spontanea verso il debole, l’impotente, verso chi soffre, e il classico odio verso il prepotente, l’arrogante, il potere. Sentimenti classici perché umani, perché il carnefice è il male, la vittima è il bene. E il tutto in quanto tali, perché i ruoli sono quelli. A volte, penso che sia semplicemente perché dev’essere così.
Tuttavia, vediamo donne e uomini piangere nelle strade di città israeliane di confine, quando un kamikaze si fa saltare, quando un missile esplode in mezzo a una strada. Ed in quel caso, i ruoli si ribaltano. La vittima diventa l’arrogante e prepotente, nonché invisibile, carnefice. Fino alla reazione israeliana. E così via, in un gioco infinito di ribaltamenti e di intrecci, un infinito imbroglio. Infinito almeno fino ad oggi.
Chi ha ragione e chi ha torto tra le due parti? Io non lo so. A differenza del 98,8% degli esseri umani viventi o recentemente defunti, io non lo so, non ne ho idea.
Quello che so è che le parti non sono solo due. Le parti in gioco sono molte, molte di più. Alcune si sanno e sono i soliti noti: americani, iraniani, siriani e così via. Con qualche new entry: vedi, Cina. Altri no, altri non si sanno, ma si immaginano: petrolieri, trafficanti d’armi, di droga e di chissà cos’altro. Ognuno con le sue diplomazie, ufficiali e ufficiose, segrete e manifeste. Una partita a scacchi a più mani, che si gioca sulla scacchiera insanguinata della Striscia di Gaza.
Chi ha ragione? Chi ha torto? Il fior fiore degli “esperti internazionali” sostiene che Hamas è il problema, pur essendo una forza eletta democraticamente. Beh, rispondono i filoisraeliani, anche Hitler fu eletto democraticamente.
Solita storia, insomma. Prova a dire qualcosa contro Israele e sei un seguace di Hitler.
Prova a muovere una critica a Israele, A ISRAELE, non agli ebrei, bensì a ISRAELE, e sicuramente sei uno che sta allestendo dei forni crematori perché odi gli ebrei e stai riorganizzando l’Olocausto. Vabbè.
Io non lo so se serve capire chi ha ragione e chi ha torto tra le due (o più) parti. Immagino che per arrivare a una soluzione, sì, sarebbe importante. La prima mossa da fare.
Tuttavia, immagino che per capire si dovrebbe sapere. Conoscere le cose. E non penso che ci sia qualcuno che può. Forse Dio può. Non so se quello degli ebrei o degli islamici, ma magari uno di tutti questi Dei ha una visione ampia e completa. Forse non resta che aspettare che intervenga, con tanto di tipico cocchio di cavalli alati e fulmine alla mano. Vedilo come un intervento risolutorio che rimette un po’ di cose al loro posto, se ti va.
Ma se guardiamo ai precedenti, non pare sia questa la scelta più opportuna: negli ultimi duemila anni, gli interventi divini di questo tipo sono davvero pochi. Prima, magari, qualcosina in più, tra Sodoma e Gomorra, piaghe d’Egitto et similia. Ma ora no. Siamo noiosi. Sempre guerre, guerre. Alla fine è logico che Issignore Iddio si stanchi di scendere dal suo attico per farci fare la pace. C’è da comprenderlo, insomma.
Scartando questa ipotesi, dunque, come agiamo? Che facciamo? Cerchiamo di capire chi ha ragione e chi ha torto, se la forza usata è proporzionata oppure no, se è un intervento utile oppure no, due popoli e due stati, tre popoli e quattro locali, un missile sparato e i viveri che non ci sono, cerchiamo di capire, ci interroghiamo, riflettiamo, ci sdegnamo davanti ai bambini morti?
Ognuno ha il suo ruolo. Il cattivo dev’essere cattivo e spietato. La vittima deve fare pena. Il buono vince ma non troppo. Le vittime muoiono.
Noi, intanto, ci interroghiamo dal 1967, e, ancora, non ci si è capito un cazzo nessuno.
O più probabilmente, ci si è capito tutto, tutti. Tutti, tranne i bambini di Gaza.

venerdì 26 settembre 2008
Quando muore un partigiano
Quando muore un partigiano
È scomparso Enio Sardelli. Un “simbolo”, un partigiano, un uomo
Di Gianni Somigli
Domenici, Cruccolini, Nencini, il PD, Sinistra Democratica, Rifondazione, l’Anpi, i Centri sociali, numerosi cittadini. Tante le esternazioni di dolore per la perdita di Enio Sardelli, il partigiano “Foco”, scomparso dopo un lungo periodo difficile il 28 aprile scorso all’età di 82 anni.
Mentre Alemanno, neo-sindaco-ex-fascista di Roma, fa visita alle Fosse Ardeatine ed esalta i valori della Resistenza come patrimonio comune degli italiani (se in modo sincero o strumentale, chi lo sa?), potrebbe stupire il silenzio della desta fiorentina di fronte alla perdita di uno dei simboli più importanti della Lotta per la Liberazione di Firenze. Potrebbe. Dovrebbe.
Noi di Informa Firenze intendiamo lasciare ad altri le astratte dissertazioni politiche intorno a valori e principi, così come le sterili disquisizioni sulla presunta “Riconciliazione”, che ha però sempre più il solo sapore della storia riscritta e della negazione. In tempi in cui in Italia si vuol far sparire perfino il darwinismo dai libri di scuola, si fatica a restare lucidi e calmi. Come se la “Riconciliazione” non si realizzasse ogni giorno quando ci esprimiamo liberamente. Quando leggiamo i giornali. Quando votiamo.
Quando abbiamo cercato “Foco” per l’intervista poi pubblicata sull’Informa Firenze di aprile, siamo partiti con l’idea sbagliata: quella di far domande e chiedere spunti a un “simbolo”. Simbolo di libertà, giustizia, fratellanza. Di eroicità. Uno scrigno di ricordi da cui attingere frasi importanti per impreziosire un articolo che dimostrasse un’idea. Certo, per rinfrescare la memoria di qualcuno. O per chiarire le idee ad altri.
Siamo partiti con un’idea non del tutto corretta, e ce ne siamo resi conto durante le diverse ore trascorse al telefono con Enio.
La persona con cui stavamo parlando, che ci stava raccontando la sua vita, che ci stava svelando episodi tristi oppure aneddoti semicomici del tempo delle notti d’inverno trascorse a fare la sentinella nei boschi, non era un simbolo. Non solo, almeno. Quello era un uomo. Anzi: un uomo che da ragazzo fece una scelta.
In un paese di “terzisti” e “ignavi”, per Dante disprezzati finanche dall’Inferno, già fare una scelta è cosa inconsueta. Un atto di coraggio eroico. Un atto di fede.
Quello che pare sempre meno chiaro ma che dovrebbe essere lampante è altro. E cioè che non tutte le scelte sono uguali. Ci sono scelte giuste e ci sono scelte sbagliate. Chi a quel tempo fece la scelta giusta, non può, non deve essere messo alla pari di chi al contrario optò per la scelta sbagliata. Categorie sempre pericolose, il “giusto” e lo “sbagliato”; ma, almeno in questo caso, è la Storia a definirne i limiti corretti.
Il racconto di Enio si snodò lungo tutto la sua vita. Iniziando a scrivere, poi, ci siamo resi conto che racchiudere tutto quel tesoro in due sole pagine era un’impresa molto complicata. Abbiamo così cercato di focalizzare l’attenzione, così, attraverso quella conversazione, su alcuni aspetti specifici.
Ci sono pseudo-intellettuali per autocertificazione che tornano periodicamente a insistere sulla necessità di “smitizzare” la Lotta Partigiana. Ovvio: a fini politici, e in modo becero, strumentale, ignorante.
Parlando con Enio, però, anche in noi è avvenuto un qualcosa di molto simile. Solo che, paradossalmente, la “nostra” smitizzazione ha reso ancora più forte il mito.
Quando le persone sono elevate a “mito”, la retorica porta a tracciare profili non sempre veritieri. Quantomeno, sopra le righe. Si annacqua un aspetto che, al contrario, è primario. Anzi, forse il più importante di tutti: l’aspetto umano.
Le parole di Foco ci hanno fatto ben capire che quella guerra fu una guerra tra il bene e il male. A combatterla sono stati uomini. Ragazzi. Donne. Esseri umani devastati dalla paura, dalla fame, dal coraggio, dalla speranza, che hanno scelto il “bene”, proprio e dell’umanità, e che si sono trovati a combattere contro un “male”. Un male composto anch’esso da esseri, sulla cui umanità è più che lecito porsi qualche dubbio.
Enio ci ha regalato il racconto di questa umanità. Di chi ce l’aveva e di chi l’aveva persa. Ci ha dipinto la sua infanzia punteggiata di domande alla mamma: perché i fascisti fanno male alla gente? Perché entrano nelle case e portano via i nostri amici? Perché?
Le domande di Enio da bambino non hanno mai trovato risposta. Presto, però, ne sono nate altre: Enio, insieme a tanti altri, ha replicato mettendo in gioco la propria vita per conquistarsi una libertà mai conosciuta e anche per questo così anelata.
Da quel momento e fino al 28 aprile scorso, Enio è stato il partigiano “Foco”. Un uomo che, con la sua vita, ci ricorda che le idee e gli ideali, senza uomini e donne pronti a combattere per essi, sono parole vuote come un mondo senza fiori e stelle. Questo era, ed è, essere vivo sotto una dittatura fascista: vivere in un mondo senza fiori e senza stelle. Che pure c’erano, erano lì, ed erano bellissime ma tu non avevi la libertà di riempirtene gli occhi e il cuore e il pensiero.
Vogliamo “smitizzare” i partigiani come Enio? Facciamolo, e ci accorgeremo che la memoria ne esce ancor più rafforzata. La leggenda, amplificata. Lasciamo cadere le vestigia del mito: “umanizzando” la storia si rendono più certi i confini di un territorio minato, dove negli ultimi anni chiunque si sente libero di dire tutto e il contrario di tutto, spingendo verso la radicalizzazione e la giustificazione per poi ricorrere a ipocrite prese di distanza quando qualche fesso ci casca davvero.
Perdere una persona come Enio Sardelli non solo ci addolora profondamente a livello umano; perdere uomini e donne come Enio fa nascere in noi una buona dose di preoccupazione. Quando anche gli ultimi testimoni di quell’epoca se ne saranno andati, cosa succederà in questa Italia così atta alle derive, così felice di voltare non pagina ma faccia, così predisposta a rinnegare se stessa e quello che il giorno prima era vero, il giorno dopo non lo è più?
La memoria di Enio Sardelli e di tutti coloro che parteciparono a quei giorni di sofferenza e speranza vive e continuerà a vivere nella Costituzione italiana, come lo stesso Foco tuonò pochi giorni prima di morire.
In noi, però, rimane la tristezza per la perdita di un amico che, non troppi anni fa, mise in gioco la sua giovane vita per regalare a noi, italiani di oggi, un mondo migliore. Fatto di stelle e fiori. Cerchiamo di meritarcelo.
Resistere, resistere, resistere!
Tre giorni per festeggiare la Costituzione. E difenderla
Il 10, 11 e 12 ottobre prossimi alla SASCHALL con incontri, musica, dibattiti
Di Gianni Somigli
Vi avvertiamo: quello che vi apprestate a leggere è un articolo di parte. Di più: l’articolo che state per leggere non solo sta da una parte ma, accusateci pure di presunzione, sta dalla parte giusta.
Perché la parte giusta non è quella dettata dalla propria coscienza. Non sempre. Ci sono alcune volte in cui il giusto e lo sbagliato sono oggettivi. Netti. A volte, tra il bene e il male non ci sono sfumature, ed una scelta sbagliata resta quello che era e continua ad essere: una scelta sbagliata. Nonostante il giustificazionismo che parla di scelte fatte in buona fede, nonostante il revisionismo che vuol rileggere la storia e darle nuovi significati.
Probabilmente, i soldati delle SS erano in buona fede quando bruciavano ebrei, zingari, menomati, dissidenti.
Probabilmente, erano in buonafede i razzisti sudafricani per cui l’apartheid era cosa naturale, buona e giusta.
Probabilmente erano, e ancora sono, in buonafede i soldati comunisti cinesi in Tibet.
E probabilmente, erano in buonafede i fascisti che terrorizzarono, uccisero, violentarono prima, durante e dopo la guerra.
Buonafede che, come sarà facile intuire, non assolve certo da azioni che hanno segnato il corso della Storia.
Quella stessa buonafede che sicuramente albergava nel cuore e nelle azioni di Martin Luther King. Nelle battaglie di Nelson Mandela. Nella non violenza di Mahatma Gandhi, e di mille altri che lottarono e lottano per la parte giusta.
Negli USA, in India, in Sudafrica, nessuno si sognerebbe di mettere in discussione quale sia la parte giusta o la parte sbagliata: è la Storia che lo afferma. Nessuno si sognerebbe di dire che l’apartheid ha prodotto “anche cose buone”. O che, a parte qualche piccolo quiproquo, il razzismo in fondo non era (o è?) così male. In Germania nessuno avrebbe il coraggio di dire che “comunque” il nazismo creò posti di lavoro e rilanciò l’economia.
In Italia, invece, non solo ci si sogna di dirlo: si dice. E non sono solo discorsi di qualche nostalgico, di qualche xenofobo, no: sono libri che vendono milioni di copie, sono discorsi tenuti in occasioni ufficiali da Ministri della Repubblica, che hanno giurato sulla Costituzione.
Sono passati quindici anni da quando Indro Montanelli, dalle colonne della sua “Voce”, consigliava ai politici di rileggersela, quella Costituzione su cui si basa l’ordinamento democratico del nostro paese. Fu accusato di essere comunista, secondo la classica logica italiana del “o di qua o di là”. Caro Indro, le cose sono cambiate in quindici anni. In peggio. Fortunatamente, te ne sei andato prima di assistere a questo sfacelo. Avevi ragione tu: ma quali “magnifiche sorti, e progressive”.
Perché non si tratta di un “giochino” del tipo: qual è stato il male assoluto e quale il male relativo, cosa è stato il bene e cosa il quasi bene. Si sentono discussioni ridicole da varie parti, fatte da persone o personaggi di fronte ai quali viene da chiedersi in che mani siamo finiti, ma che soprattutto non sembrano rendersi che le proprie parole provocano delle reazioni. Soprattutto su chi è più malleabile, influenzabile, manipolabile; su chi forma le proprie opinioni solo ed esclusivamente su tali parole.
Così, mentre a Castello i “camerati” di “Quota 33” aprono un centro culturale (o presunto tale) dove discorrere della propria differenza dalla massa, esultando per “aver aperto una breccia nella rossa Firenze”, in nome ma soprattutto in difesa della Costituzione della Repubblica Italiana, l’ANPI TOSCANA organizza la prima festa regionale dell’ANPI: il 10, 11 e 12 ottobre prossimi alla SASCHALL di Firenze, una tre giorni di dibattiti, incontri, musica, per festeggiare i sessanta anni della nostra Carta fondamentale. E, viene da dire “purtroppo”, ancora per difenderne i valori, i principi, il messaggio.
«Per la Toscana, questa festa è una grande novità e un impegno per il futuro – dice Silvano Sarti, presidente dell’ANPI Provinciale Firenze -. La sfida del rinnovamento è aprirsi ai giovani, incontrarli, lavorare insieme. È questa la condizione principale affinché l’ANPI un’associazione di massa, in grado di rispondere agli attacchi di chi prova a mettere sullo stesso piano partigiani e repubblichini. Abbiamo il compito di riaffermare i valori della lotta partigiana, con sempre più forza e convinzione, per farli diventare, ogni giorno di più, di tutti gli antifascisti».«La Resistenza è stata una lotta giusta e dalla parte giusta. I valori che abbiamo difeso e costruito – prosegue Sarti - erano i valori fondamentali della nostra civiltà sovvertiti dalla dittatura fascista. Il nostro ruolo, oggi, è quello di consegnare alle nuove generazioni i valori della Resistenza, affinché non si annullino, ma si rafforzino. E visto l’impegno dei giovani dimostrato per la realizzazione di questa festa regionale dell’ANPI, si può ben sperare».
Fannulloni eccellenti...
Eccellenze e fannulloni, le grandi battaglie del “mini-Ministro”
Firenze cinque volte nella lista dei “buoni” di Renato Brunetta. E i cattivi...
Di Gianni Somigli
Gestione della qualità all’ITI-IPIA Leonardo Da Vinci; progetto del Comune “Innovazione e modernizzazione”; progetto “Web DPC: un sistema di supply chain farmaceutico” dell’ASL 10 Firenze, a cui appartiene anche il progetto “Modernizzazione e innovazione della prevenzione veterinaria” e infine il portale web “LineaComune.it”.
Il nome di Firenze risuona ben cinque volte tra le prime duecento storie di eccellenza della Pubblica Amministrazione. Per cinque volte Firenze risponde “presente” all’appello fatto dal ministro Brunetta. Quello fatto dal registro dei buoni, non dalla lista nera dei fannulloni, di cui forse avrete sentito parlare nei mesi scorsi, nonostante le reti televisive abbiano quasi oscurato la notizia...
Lasciamo la satira a chi (secondo politici, giudici e Chiesa) la “può” (non necessariamente “sa”) fare, e parliamo di quello che il ministro per la Pubblica Amministrazione e Innovazione, Renato Brunetta, ha fatto negli ultimi mesi.
Già in quest’ultima frase c’è un forte elemento di novità, di quelli che senz’altro fanno salire le quotazioni di gradimento verso il “mini-Ministro”: il verbo “ha fatto”. Un verbo a cui gli italiani sono stati poco abituati, dicono in tanti analisti frequentatori dei salotti televisivi, e la differenza sta tutta lì. Un Governo che fa, un Governo che agisce, un Governo decisionista come il suo Capo: così si spiega l’apprezzamento, o presunto tale, verso l’Esecutivo.
Noi non frequentiamo neanche gli ingressi degli studi tv, figuriamoci i salotti. Ma troviamo semplicistico il ragionamento. Le conclusioni, scontate, ovvie, quantomeno affrettate. Un consenso creato per creare consenso.
È senz’altro vero che in uno strano Paese come il nostro, abituato alle paralisi istituzionali dovute alla litigiosità politica (intesa come “tra politici”, non con argomenti politici alla base), verbi come “agire” e “decidere” suonano nuovi e importanti. Sponsorizzati e venduti poi dall’Uomo del Fare, come solo il Presidente del Consiglio sa proporsi, ancora di più.
Ci ostentiamo a credere che agire sia importante, ma che rimanga una differenza essenziale, non da poco, tra “fare bene” e “fare male”. Dicono: lasciateci lavorare. A parte che tecnicamente non si avrebbero comunque strumenti per farli smettere, è giusto, ci chiediamo ingenuamente, fingere che questa sia la prima volta che “li lasciamo lavorare” e che sia quindi giusto fidarsi?
Ognuno darà le sue risposte, magari facendosi due conti in tasca prima di guardare Porta a Porta o un qualche telegiornale.
Un po’ per abitudine, un po’ per fiorentinità, siamo portati ad una certa diffidenza verso chi ci governa. Spesso, se non sempre.
Come porsi dunque verso il ministro Renato Brunetta e la sua battaglia contro i fannulloni ed a favore delle “pratiche di buon governo”?
Le voci a proposito sono tante: ci sono diverse persone che sostengono che, in fondo, non è cambiato proprio nulla. Ma c’è chi dice che la verità è un’altra. Che è cambiato tutto, che i “fannulloni” adesso lavorano, col mini-Ministro che sventola percentuali da capogiro sugli effetti delle sue circolari, quasi miracolosi nel debellare le malattie. «Sono il primo ministro con poteri taumaturgici» dichiarò il baldanzoso Brunetta in tv.
Ed è qui che semmai arriva l’inghippo.
Il ministro Brunetta ha fino ad ora saputo dove andare a colpire. Indubbiamente, ha saputo affrontare uno dei vulnus più vituperati dagli italiani: l’inefficienza delle Amministrazioni Pubbliche, un vulnus divenuto quasi luogo comune. Un farraginoso, vecchio gigante con cui tutti ci siamo scontrati e da cui, pressoché sempre, ne abbiamo buscate.
Non siamo in grado di sostenere che i provvedimenti brunettiani siano realmente taumaturgici, né che essi siano al contrario solo “spot” populisti i cui effetti non modificheranno il ventre molle dell’apparato statale.
Quello che è certo è che il professore Brunetta ha saputo impersonare un ruolo accattivante, svecchiando l’immagine di un sistema agonizzante, anche attraverso concorsi, vignette, battute. Un linguaggio popolare, un “antiburocratichese” per parlare di burocrazia. E nonostante non si possa dire (non ce ne voglia il mini-Ministro) che sia un bell’uomo, è indiscutibile che Brunetta in televisione ci sappia stare. Che sappia usare il mezzo, strizzare l’occhio al pubblico, accreditandosi come uno dalla sua parte che lotta per cambiare le cose.
Se sia un affabulatore o un modernizzatore reale, è troppo presto per dirlo. In questo caso crediamo sia giusto “lasciarlo lavorare”, lasciarlo “fare”, per poi giudicare (col voto) se ciò che è stato fatto, sia stato fatto bene o sia stato fatto male.
Siamo ormai un paese di disillusi: chissà in quale dei due casi rimarremmo più sorpresi.
martedì 13 maggio 2008
Chiedi chi era... PEPPINO IMPASTATO
Peppino Impastato era un rivoluzionario, un’idealista. Scriveva poesie, Peppino, mettendo in rima la protesta non violenta contro la violenza della mafia, del potere politico colluso e del silenzio assordante dell’accondiscendenza; urlava il suo no dai microfoni di Radio Aut, Peppino, declamando la sua Commedia non divina ma cretina, dove i peccati si dicevano e i peccatori si sbeffeggiavano per nome. Quei peccatori che sarebbero stati, il 9 maggio 1978, i suoi aguzzini; quei peccatori che hanno violentato la sua memoria, la sua lotta, hanno infangato o ci hanno provato, ma senza riuscirci, non fino in fondo.
Trenta anni fa Peppino Impastato era brandelli di corpo sparsi intorno a una ferrovia. Pezzi di carne come semi di speranza seminati sulla terra di Sicilia e di Italia, così assetate di speranza, legalità, di rivoluzionari in grado di opporsi con cultura di vita a una non cultura di morte. Terre innaffiate con sangue innocente di persone innocenti in cui la speranza non germoglia, ma annega.
Chiedi chi era Peppino Impastato.
Chiedi chi era Peppino Impastato e poi deponi un fiore sulla tomba italiana della libertà. Che non è mai morta, perché mai è stata viva, se non nella voce e nei brandelli e nel sangue.
Chiedi chi era Peppino Impastato, e capirai perché oggi Mangano è un eroe.
Perché abbiamo perso, Peppino. Anche se ogni tanto ci fanno pensare che ci sia stata e ci sia ancora una partita da giocare.
mercoledì 2 aprile 2008
Popper non serve solo per il dietro

sabato 29 marzo 2008
La decenza ha un limite?
