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giovedì 23 aprile 2009

Cento di questi giorni


Quello che vedete in cima alla colonnina qui di fianco, a sinistra, e che certamente riconoscerete pur non avendo mai letto un libro o un giornale in vita vostra, è uno dei cosiddetti "padri nobili" del giornalismo italiano. Nella foto è insieme all'altro padre. Nobile pure lui. Poi dice che le coppie dello stesso non funzionano e non vanno riconosciute. Due padri maschi: la Chiesa direbbe che è per questo che il figlio, il giornalismo, non è uscito fuori tanto sano.

Leggo oggi su un quotidiano che durante l'apertura dei festeggiamenti per il centenario della nascita del grande Indro, a Fucecchio, sono state dette parole che, pur essendo parole di circostanza, io credo abbiano suscitato un gran mal di pancia al Grande Vecchio. Se per il ridere o per lo schifo, questo non lo so.

Leggo di Zavoli e del suo intervento così banale da risultare noioso. Un Montanelli non rinascerà, non ci sono più le ideologie. E che dire delle mezze stagioni. Ma va bene, insomma, quando si commemora ci sono cose che si devono dire. E poi Zavoli fa parte del circolo dei Grandi Vecchi, di coloro che ormai commentano se stessi.

Leggo di Mario Cervi, "uno dei grandi amici di Montanelli", che ne tesse elogi, ossequiosi ringraziamenti postumi. Caso vuole che Mario Cervi sia stato uno dei "traditori" nel momento più duro della lunga vita-carriera di Indro. Un tradimento professionale, ma soprattutto un accoltellamento tra due persone che fino a quel momento si rispettavano. Forse erano pure amici. Poi arrivò Berlusconi.

Montanelli fu costretto a lasciare il suo amato Giornale, esautorato prima da Feltri, quindi dal "grande amico" Mario Cervi che inizialmente l'aveva seguito alla Voce. Solo che poco dopo, vista la mala parata, il Cervi scelse di fare marcia indietro, assumere la direzione del Giornale, partecipare alle numerose campagne anti-Montanelli, "grande amico". Il Grande Vecchio, negli ultimi giorni della sua vita, in un'intervista a Cheli per Diario, si mostrò, una delle rarissime volte, non sarcastico, bensì umano, ferito: «Da Cervi, certe cose non me le sarei proprio aspettate». Che dire: è vero, di Montanelli non ne nascono più, oggi. Tutti Cervi. Oggi.

Leggo di Sorgi, l'onnipresente Sorgi, per cui può valere la famosa citazione pasoliniana: «Io non ho nessuna autorevolezza, salvo quella di non averne». Per lui, per Sorgi, vale solo la prima parte. Ed è per questo motivo, per questa imbarazzante assenza di autorevolezza derivante da imbarazzante nullità giornalistica, che il nostro Sorgi è uno dei giornalisti e "commentatori" politici più presenti in televisione. Il che è pure piuttosto naturale: visto il livello della politica, è giusto che sia Sorgi a commentarla.

«Ve lo immaginate un Montanelli oggi su internet?» chiede agli astanti. Magari pensa pure di essere arguto. Qualcuno lo dovrebbe avvertire, poveretto. Io comunque voglio rispondere alla sua domanda retorica priva di fondamento, e pure di ars: sinceramente sì, me lo immagino Indro su internet. Mi immagino La Voce on line, un sito visitato da centinaia di migliaia di persone. Mi immagino pure lui picchiettare al pc. E una rubrica, magari chiamata "ControRete": «Dopo aver visto Sorgi in tv, immaginarsi Montanelli sul web è una specie di sogno erotico».

Buon centesimo compleanno, Vecchio. Come dire. Non ragionam di loro, ma guardiamo e passiamo. La gente piccola non dovrebbe avere il diritto di parlare della gente grande. E la tua enormità è paragonabile solo al loro essere uomini piccoli piccoli senza vergogna alcuna.
Il destino delle leggende è quello di appartenere a tutti. Purtroppo.

giovedì 16 aprile 2009

Tra informare e allarmare, c'è di mezzo il Sismologo de Noantri


In mezzo alla marea di dichiarazioni di persone totalmente ignoranti in materia che si trovano a gestire la materia, una materia che purtroppo riguarda anche la vita (e la morte) delle persone, le uniche parole sensate che mi è capitato di sentire sono state quelle di un medico, di un neurochirurgo, intervistato ieri sera per il sempre ottimo Chi l'ha visto? della sempre ottima Federica Sciarelli.

Quest'uomo, che si è spezzato la schiena perché scappando dalla casa crollante non ha più trovato la rampa di scale, ha detto, con pazienza, con estrema calma, una cosa talmente lampante, semplice, addirittura banale se non logica, che mi sono dato una pacca sulla fronte. Stile: porca miseria, è vero!

Ha detto, più o meno: «Tutti ci hanno detto di stare tranquilli, di non allarmarci. Soprattutto i giornali e le tv, per cui questi sciami sismici erano normali. Dovevamo stare tranquilli perché è impossibile prevedere l'arrivo di un terremoto; ma se non si può predire che accada con certezza, non si può nemmeno dire che non accadrà con certezza. Dovrebbero smettere di trattarci come bambini idioti, e fare informazione per creare consapevolezza: non chiudere le porte a chiave, tenere una torcia e il cellulare a portata di mano, non lasciare le macchine nei box. Piccole accortezze che salvano la vita, non allarmismo».

La calma con cui ha detto tutto ciò, paragonando la situazione a quel "consenso informato" a cui il medico chirurgo è obbligato -giustamente- nei confronti del paziente. Mica lo allarma. Mica dice che morirà e che deve scappare. Lo tratta da paziente, adulto e in grado di capire che esiste un rischio di cui essere consapevoli. Un rischio in base a cui prendere decisioni.

Ecco. Queste parole dovrebbero essere chiare a tutti coloro che si riempiono la bocca in questi giorni. Al Silvio Pompiere e ora pure Sismologo de Noantri, per esempio, che hanno tutti elogiato, sondaggi compresi (sempre i suoi), elargitore di promesse nelle solite situazioni -sconcertante confrontare le parole post terremoto di San Giuliano di Puglia con quelle post terremoto de L'Aquila: UGUALI.

Oppure, ognuno dovrebbe sentire la responsabilità di conoscerle, queste parole. Perché salvarsi il culo è molto, molto più auspicabile che essere due volte vittima: prima della morte, poi della strumentalizzazione piagnonistica vespianberlusconiana.

mercoledì 25 marzo 2009

Il Gioco dei Due Re




Leggo con rassegnazione che il "biotestamento" sta assumendo contorni grotteschi durante la farsesca, grottesca, pornografica votazione parlamentare.
Al fine di evitare altri "Casi Eluana", si vieta l'interruzione di alimentazione e idratazione forzata. Sono sbalordito. Nonostante mi chieda perché mi stupisca ancora. Nonostante mi chieda perché non abbia ancora chiesto l'asilo politico al Bhutan, dove il "Pil" è stato sostituito con il "Bil": Benessere Interno Lordo. In Italia è il Bhutan la notizia. Chissà come se la ridono, lassà nel Bhutan, di noi miseri, accondiscendenti italiani.

Leggo con interesse che nel Bhutan, che è sull'Himalaya, vige la monarchia. Il Re, quel pazzo, ha imposto la sua volontà sul suo popolo. Ha, cioè, introdotto i partiti, soprattutto quelli avversari, e obbligato a votare. Obbligato a votare liberamente. Sarà che lassù in cima a quei monti c'è l'ossigeno rarefatto. Il Re che impone la democrazia. Mah.
Qui da noi, tra le macerie e la polvere e i miasmi quotidiani, gli atti del Popolo della Libertà sono quasi esclusivamente divieti. C'è qualcosa che non torna.

Penso con forte astio interiore che se il Re del Bhutan impone la democrazia mentre il Re di Arcore impone che non posso nemmeno decidere se morire o no, qualcosa non torna. Oppure torna tutto, e tutti sono felici: la norma c'è e la Chiesa è contenta. Poi, se vuoi morire, muori a casa tua, di nascosto. Si fa ma non si dice. Come sempre, in Italia. Salviamo la faccia. Solo che la faccia fa schifo. E' un composto di cerone e lifting. E' un cimitero, è una nebbia malata e tossica, è un'epigrafe sconnessa.

Evviva il Bhutan forzatamente libero.


giovedì 26 febbraio 2009

Se in pentola bolle il nulla


Siamo o non siamo, in Italia, sotto un regime? Da più parti, da più anni, si levano voci e accuse, manifesti e manifestazioni. E se oggi Di Pietro addita l’attuale Governo Berlusconi, come non ricordare la piazza sventolante bandiere di Forza Italia, Lega, AN e UDC di fronte a un palco su cui campeggiava a caratteri cubitali: “Contro il regime”.

Come spesso accade, com’è sempre accaduto e come continua ad accadere, le parole, quando vengono usate come simboli, o slogan evocativi, perdono il loro significato, si attenuano, si svuotano. Regime riporta alla mente quel signore in camicia nera e dalla zucca pelata, quei venti anni di omicidi e dittatura che, ancora, qualcuno si ostina a difendere con banalità come “furono fatte strade, furono fatti ponti, fu fatto il Concordato”.

L’uso smodato del termine “regime” lo ha reso docile, inoffensivo: se tutto è regime, allora niente è regime. E non vale più neanche la pena di andare a controllare se le accuse siano fondate o meno: “regime” non bolla più il destinatario dell’aggettivo, ma il mittente, che per l’uso stesso della parola diviene automaticamente populista, illiberale, illogico.
Spesso si sente dire che la politica viaggia quattro o cinque passi indietro rispetto alla società e al mondo reale, insomma, alle persone che essa, la politica, dovrebbe essere chiamata a rappresentare. Riflessione vera, ma senza sbocchi: chiedere alla classe politica, soprattutto quella attuale, di anticipare e indirizzare, oltre che rappresentare, le volontà e le voluttuosità popolari, sarebbe davvero troppo.

C’è un altro aspetto che colpisce l’attenzione e fa riflettere, e che si ricollega direttamente a quello che si è analizzato in precedenza.
La politica, o meglio i politici, fanno questo uso indiscriminato, spesso scellerato, di parole. Parole ridondanti, spesso assordanti, dal significato etimologico catastrofico. Parole che vengono buttate in mezzo un po’ per confondere le idee, un po’ perché si è in quella che viene definita “campagna elettorale permanente” e quindi i toni devono restare alti all’infinito. Parole che quindi diventano contenitori lessicali senza contenuto, soprattutto quando sono urlate ora da un palco, ora da un seggio, oppure da uno schermo. Parole vecchie. Non più rappresentative.

Ma è il caso di fare un ulteriore salto di qualità, perché questo è il punto vero, quello che può rispondere alla domanda con cui si è aperta questa riflessione. Siamo o non siamo, in Italia, sotto un regime? Forse non sono solo le parole ad essere vecchie. Ed esse sono rappresentative, sì, ma di un mondo che non esiste più. Il sistema italiano odierno si fonda su categorie politiche attuali? La risposta è: no.

Torniamo alla nostra parola iniziale: “regime”. Se Di Pietro utilizza un giorno sì e l’altro pure la parola “regime” per definire il Governo, ottiene un impatto opposto a quello voluto.
“Regime” evoca una sola cosa: il Fascismo. Ed è evidente che nelle condizioni attuali non siamo sotto il Fascismo. È evidente che non siamo sotto una dittatura, se io stesso posso esprimere liberamente il mio pensiero.
Qui sta l’inghippo: non siamo certo sotto un “regime”. Almeno lessicalmente. Regime è una parola anacronistica, che rappresenta un determinato periodo storico che fortunatamente è finito, pur tra i rimpianti dei nostalgici, e che si spera non tornerà mai più. No, non siamo sotto regime perché regime indica quella dittatura mussoliniana.
La democrazia, quindi, non è a rischio? Anche questa è una formula piuttosto abusata e discretamente svuotata, secondo quel meccanismo su cui si è discettato poco fa. Ma la formula può ancora rendere. Dunque, è a rischio?
Non vivere “sotto regime” non basta perché una democrazia sia pienamente libera. Che il Governo attuale sia autoritario, è un dato di fatto: solo che non si usa più la parola “autoritario”, che ha una connotazione tanto negativa quanto veritiera. Oggi il Governo viene definito “decisionista”: questo permette di connotare un’azione molto discutibile in modo positivo, così da creare consenso attraverso il consenso.

La forza delle parole non è da sottovalutare. Durante il Fascismo furono abolite le parole straniere in nome di quella stessa italianità che attualmente viene ribadita quando si difendono interessi intrecciati stile Alitalia.
Oggi, con le parole si gioca in modo più subdolo, più fintamente blando e, per questo, più pericoloso. Chiediamoci: perché una legge in materia di testamento biologico viene definita legge sul “fine vita” e non legge sulla “morte”?
Sono differenze appena osservabili, appena rilevabili, ma che nell’era della comunicazione come quella che stiamo vivendo, possono davvero segnare la differenza tra la libertà e la non libertà. La differenza tra un “regime” e un “regimismo”.

Le persone vengono ubriacate da questo casino di significati e significanti: spesso non hanno strumenti intellettuali per capire, per analizzare, per farsi un’idea ed infine per scegliere, soprattutto attraverso il voto ma non solo.
E questo è il dato di fatto, o uno dei dati di fatto: perché in questo deserto semantico dove ognuno può dire quello che vuole e il suo contrario, dove ognuno può smentirsi nell’arco di un giorno o due, dove ognuno può saltellare da una parte politica all’altra sventolando bandiere, alla fine nessuno ci capisce più nulla e si finisce per sostenere la persona di cui ci fidiamo di più. Non per cosa dice, ma per come lo dice, e per l’immagine che riesce a costruirsi. E si sa chi ispira più fiducia: chi è forte. O almeno, chi dà quest’immagine di sé: chi riesce a passare da autoritario. O come decisionista.

Ecco perché non siamo sotto un “regime”, ecco perché non viviamo un Fascismo: perché le distanze e le contrapposizioni ideologiche non esistono, ognuno si proclama democratico, riformista, cattolico, laico, rivoluzionario, socialista, conservatore, liberale e così via. Ognuno dà all’altro del dittatore. Ognuno si sottrae dal parlare di contenuti: la semantica in cantina, regna il lessico. Le parole non sono più simboli, ma pentole vuote su cui battere coi mestoli per alzare un baccano che rende incomprensibile qualsiasi cosa, che confonde.
Siamo o non siamo sotto regime?
No. Non c’è bisogno di regimi, cioè di dittature vecchia maniera.
La democrazia è a rischio?
No. Ma solo perché la democrazia non esiste, perché le scelte fatte dal demos sono scelte libere solo nella forma, non nel processo di formazione, che si basa sul clangore metallico delle parole usate come pentole vuote.

mercoledì 25 febbraio 2009

Marco Travaglio al Puccini - "Promemoria": credeteci, è successo davvero


Quindici anni tra stragi e tangenti, ladri e delinquenti, ville e ruberie, magistrati e massonerie


Di Gianni Somigli

Il 27 gennaio è il Giorno della Memoria. E si sa. A metà febbraio, al Puccini, si sono svolti invece i Pomeriggi e le Serate del Promemoria. Ironico il Destino, che avvicina queste due date. Quantomeno per gli effetti. Molto simili. Nel quasi-bene e, ovviamente, nel male.
Perché il Vaticano è sempre il Vaticano, e Marco Travaglio non è mica il papa. Per celebrare degnamente il Giorno della Memoria, infatti, è stata revocata la scomunica ai lefevbriani. E fino a qui, diremmo anche chi se ne frega. È che qualcuno di loro, tali lefevbriani, non è che proprio ami e apprezzi gli ebrei. Anzi: le camere a gas non sono esistite. Milioni di morti? Ma quando mai. E non era esattamente il Giorno della Memoria, ma un po' dopo: ed ecco che "in memoria di" nascono come funghi velenosi leggi atte ad estirpare rumeni e clandestini, e "saremo cattivi", con le ruspe a buttar giù ghetti moderni, fuoco, fiamme, un po' come a Gaza, sempre in memoria di. Come dire: se la Memoria è questa, fermi tutti.

Tra il Giorno della Memoria e i Pomeriggi del Promemoria ci sono somiglianze impressionanti. E qualche dissonanza negli effetti.
Il Promemoria, lo spettacolo teatrale (e libro) di Marco Travaglio, è una dettagliata e pungente ricostruzione. Niente di più, niente di meno. Fatti che messi scarnamente in fila raccontano gli ultimi quindici anni della nostra cara Italietta. Fatti, non supposizioni; sentenze e deposizioni, non sogni e supposizioni. Reali, così reali da sembrare irreali.
Personaggi ultranoti ed eccellenti sconosciuti, che si intrecciano e brulicano come mosconi, come personaggi cupi di un quadro di Bosch. Tra Tangentopoli e le stragi, tra la P2 e la mafia, tra sedicenti uomini di stato, magistrati buoni e cattivi, Craxi, Berlusconi, D'Alema.

Il solito Travaglio, dirà qualcuno. I soliti sospetti, non il film, bensì Berlusconi, Dell'Utri, Cuffaro e Mastella. Sospetti? No: fatti, sentenze e prescrizioni. Incredibile ma vero, c'è stato un tempo in cui i processi si facevano. Credeteci, non è una leggenda! Ci sono stati tempi scevri da lodi, legittimi sospetti e immunità. Pure da alfani vari.
I fatti quelli sono. Marco Travaglio mica è il Messia: è uno, un giornalista, che appiccica Promemoria sui frigoriferi che sono le nostre coscienze, forse le nostre memorie, ammesso che coscienze e memorie siano là dentro e siano congelate, ammesso che quegli scomparti non siano vuoti.

Lo abbiamo detto. Tra il Giorno della Memoria e i Pomeriggi del Promemoria ci sono somiglianze impressionanti, ma qualche dissonanza, almeno negli effetti.
Perché se un vescovo "negazionista" dice cazzate, viene indicato per quello che è: un imbecille. Un segnale preoccupante, da non sottovalutare; ma, almeno, suscita ancora sdegno. Ancora per un po'.
Nel caso del Promemoria travagliesco non ci sono lefevbriani.
Perché? Semplice, non ce n'è nessun bisogno!
Nascono strade intitolate a Craxi, che ride da morto nel pantheon del PD (e pure in quello del PDL, incredibile!). Gelli va in tv. Di mafia non parla nessuno. Le leggi sono fatte non da deputati ma dagli imputati. Controllore e controllato coincidono.
Insomma, dormite tranquilli: non è mai successo nulla. Era solo un brutto sogno, non è successo nulla! E se non è successo nulla, non c'è nulla da negare.

E poi, uno come lui, uno come Travaglio, mica è il messia, mica è il papa. È bensì un losco figuro, noto giustizialista, quasi comunista.
È Travaglio il negazionista! Il lefevbriano, qua, è lui; è lui che si oppone alla Storia, che la rivede e che la nega, raccontando fantasiosamente di stragi e di tangenti, di ladri e delinquenti, ville e ruberie, magistrati e massonerie!Il solito sospetto, crudeltà del destino. Altro che Promemoria: puntateci una pistola alla testa. E finalmente potremo morire, dormire, nulla di più, e con un sonno dirsi che poniamo fine al cordoglio e alle infinite miserie naturale retaggio della carne, soluzione da accogliersi a mani giunte. Morire, dormire, sognare forse. Esattamente come ieri, esattamente come oggi.

lunedì 9 febbraio 2009

Infiniti orizzonti e larghe prospettive



Davanti a tutto questo, quello che dobbiamo provare è un grande orgoglio. Perché siamo davvero magnifici, siamo un popolo unico, strepitosamente a sé stante. Ma soprattutto, dobbiamo essere fieri della nostra, tutta e solo nostra, capacità inesauribile di stupire noi stessi. Perché quando pensiamo: ok, abbiamo raggiunto il limite, più di così è impossibile, noi invece no, noi invece no.
Quando pensiamo: peggio di così non è possibile.
E invece, invece no.
Negli ultimi mesi, per non dire anni, quante volte ci è capitato di pensare: peggio di così non si può. Davanti all’ennesima barzelletta, all’ennesimo scivolone, all’ennesima smentita, all’ennesimo dietrofront, all’ennesimo decreto, all’ennesimo “golpe”, all’ennesima ennesimità, davanti all’ennesimo caso che ti fa cadere le braccia. No, peggio di così non si può. Non è possibile.


E invece sì, sì! Invece è possibile, sì! Incredibilmente, ogni qualvolta ci sentiamo arrivati, come se avessimo tagliato il traguardo finale di un demenziale percorso al ribasso, riusciamo ad allargare l’orizzonte. Anzi, a restringerlo. Stringi stringi stringi, infiliamo la testa in un buchino nero. Il nostro futuro è una sorta di buco di culo di uno scoiattolo, o di un toporagno; di un pettirosso, forse. Ma noi, NOI!, siamo un popolo caparbio. Quando ci mettiamo in testa qualcosa, la otteniamo. Sempre.


Ed è per questo che ci carichiamo sulle spalle smentite, decreti, dichiarazioni, dati, sondaggi, mafia, camorra, chiesa, sentenze, csm, derby, clandestini, morti, stupri, feriti, belle donne, esercito, comunisti, fascisti, alitalia, debito pubblico, barzellette sugli ebrei, malati terminali da vent’anni, poesie, bestemmie e bicchieri di vino, ci carichiamo tutto questo sulle spalle e prendiamo la rincorsa, da lontano, tappandoci gli occhi, e corriamo, corriamo, corriamo, poi spicchiamo un balzo, in avanti ma di spalle perché così è più complicato, allunghiamo le mani in avanti e pluff!, ci andiamo a infilare in quel piccolo buco nero dove tutto scompare e tutto sembra uguale, dove tutto sembra finire e iniziare, vivere e morire, tutto confuso e uguale a se stesso, un piccolo buco di culo di uno scoiattolo dove, crepi il mondo, noi ci infileremo, noi e tutto il nostro futuro, speranze, sogni e desideri e paure, terrori e tormenti, lanzichenecchi e giostre volanti, scuotiamo, scuotiamo la testa e vedrai che entriamo con la testa e poi con le spalle cariche di tutta l’Italia che è e che sarà.


Ma c’è da essere sicuri, sicuri al cento per cento, che una volta dentro al nostro nuovo mondo, una volta che ci saremo stabiliti dentro al nuovo universo a forma di intestino crasso e poi tenue di scoiattolo, o di colibrì, una volta lì dentro noi, magnifici esemplari, riusciremo a voler entrare con tutti i nostri problemi vecchi e nuovi, in un cazzo di buco di culo di un cazzo di batterio intestinale.


lunedì 12 gennaio 2009

Tra ragione e torto, c'è di mezzo il morto



Non che sia semplice, ma ogni tanto ci provo. E no, più che ci provo, e più che mi rendo conto che non solo non è semplice, ma che addirittura è quasi impossibile. Quasi senza quasi.
Capire chi ha ragione e chi ha torto è un esercizio intellettuale, prima che pratico. In alcuni casi, non è difficile. Almeno a primo impatto. Perché poi, se uno ci si vuol spremere un po’, nota variabili, postille, sfumature. E allora il giudizio non è più così netto. I confini si fanno più labili, il dubbio s’insinua, il cane si morde la coda. Nel mentre, nel frattempo, il problema persiste, insiste, si aggrava e si dipana.
Ragionare del sesso degli angeli era lo sport preferito mentre i comunisti mangiabambini invadevano i Paesi dell’Est europeo. E, alla fine, del sesso degli angeli se ne sa quanto prima se non meno; sempre nel frattempo, l’Unione Sovietica aveva invaso, ucciso, si era eclissata, era sparita.

Chi sostiene che Israele ha ragione, sbaglia. Chi sostiene che ha ragione Hamas, sbaglia. Quello che più fa incazzare, di tutti questi liberi sostenitori, è che ognuno sostiene qualcosa. E lo fa con toni tipici del depositario della verità. Lo sappiamo, lo sappiamo bene che in fondo quello è il mestiere più antico del mondo: far credere di sapere, far credere di essere in grado, far credere. Un po’ come una vecchia puttana egizia, o bizantina, o romana o greca o di oggi, che si vende come ciò che non è per far credere di avere ciò che non si ha.
Chi ha ragione, insomma, Israele o Hamas? Guardando le immagini in tv (poche) e sui giornali (un po’ di più) di bambini morti, i cui visi dilaniati e deformati dalle esplosioni, rotti, sanguinolenti, così orribili da non sembrare reali, guardando a queste istantanee dall’inferno non si può che sostenere la causa palestinese. La classica simpatia, o dovremmo chiamarla “empatia scaramantica”, che nasce spontanea verso il debole, l’impotente, verso chi soffre, e il classico odio verso il prepotente, l’arrogante, il potere. Sentimenti classici perché umani, perché il carnefice è il male, la vittima è il bene. E il tutto in quanto tali, perché i ruoli sono quelli. A volte, penso che sia semplicemente perché dev’essere così.
Tuttavia, vediamo donne e uomini piangere nelle strade di città israeliane di confine, quando un kamikaze si fa saltare, quando un missile esplode in mezzo a una strada. Ed in quel caso, i ruoli si ribaltano. La vittima diventa l’arrogante e prepotente, nonché invisibile, carnefice. Fino alla reazione israeliana. E così via, in un gioco infinito di ribaltamenti e di intrecci, un infinito imbroglio. Infinito almeno fino ad oggi.

Chi ha ragione e chi ha torto tra le due parti? Io non lo so. A differenza del 98,8% degli esseri umani viventi o recentemente defunti, io non lo so, non ne ho idea.
Quello che so è che le parti non sono solo due. Le parti in gioco sono molte, molte di più. Alcune si sanno e sono i soliti noti: americani, iraniani, siriani e così via. Con qualche new entry: vedi, Cina. Altri no, altri non si sanno, ma si immaginano: petrolieri, trafficanti d’armi, di droga e di chissà cos’altro. Ognuno con le sue diplomazie, ufficiali e ufficiose, segrete e manifeste. Una partita a scacchi a più mani, che si gioca sulla scacchiera insanguinata della Striscia di Gaza.
Chi ha ragione? Chi ha torto? Il fior fiore degli “esperti internazionali” sostiene che Hamas è il problema, pur essendo una forza eletta democraticamente. Beh, rispondono i filoisraeliani, anche Hitler fu eletto democraticamente.
Solita storia, insomma. Prova a dire qualcosa contro Israele e sei un seguace di Hitler.
Prova a muovere una critica a Israele, A ISRAELE, non agli ebrei, bensì a ISRAELE, e sicuramente sei uno che sta allestendo dei forni crematori perché odi gli ebrei e stai riorganizzando l’Olocausto. Vabbè.

Io non lo so se serve capire chi ha ragione e chi ha torto tra le due (o più) parti. Immagino che per arrivare a una soluzione, sì, sarebbe importante. La prima mossa da fare.
Tuttavia, immagino che per capire si dovrebbe sapere. Conoscere le cose. E non penso che ci sia qualcuno che può. Forse Dio può. Non so se quello degli ebrei o degli islamici, ma magari uno di tutti questi Dei ha una visione ampia e completa. Forse non resta che aspettare che intervenga, con tanto di tipico cocchio di cavalli alati e fulmine alla mano. Vedilo come un intervento risolutorio che rimette un po’ di cose al loro posto, se ti va.
Ma se guardiamo ai precedenti, non pare sia questa la scelta più opportuna: negli ultimi duemila anni, gli interventi divini di questo tipo sono davvero pochi. Prima, magari, qualcosina in più, tra Sodoma e Gomorra, piaghe d’Egitto et similia. Ma ora no. Siamo noiosi. Sempre guerre, guerre. Alla fine è logico che Issignore Iddio si stanchi di scendere dal suo attico per farci fare la pace. C’è da comprenderlo, insomma.
Scartando questa ipotesi, dunque, come agiamo? Che facciamo? Cerchiamo di capire chi ha ragione e chi ha torto, se la forza usata è proporzionata oppure no, se è un intervento utile oppure no, due popoli e due stati, tre popoli e quattro locali, un missile sparato e i viveri che non ci sono, cerchiamo di capire, ci interroghiamo, riflettiamo, ci sdegnamo davanti ai bambini morti?

Ognuno ha il suo ruolo. Il cattivo dev’essere cattivo e spietato. La vittima deve fare pena. Il buono vince ma non troppo. Le vittime muoiono.
Noi, intanto, ci interroghiamo dal 1967, e, ancora, non ci si è capito un cazzo nessuno.



O più probabilmente, ci si è capito tutto, tutti. Tutti, tranne i bambini di Gaza.



venerdì 26 settembre 2008

Quando muore un partigiano

L’addio a “Foco”
Quando muore un partigiano
È scomparso Enio Sardelli. Un “simbolo”, un partigiano, un uomo

Di Gianni Somigli

Domenici, Cruccolini, Nencini, il PD, Sinistra Democratica, Rifondazione, l’Anpi, i Centri sociali, numerosi cittadini. Tante le esternazioni di dolore per la perdita di Enio Sardelli, il partigiano “Foco”, scomparso dopo un lungo periodo difficile il 28 aprile scorso all’età di 82 anni.
Mentre Alemanno, neo-sindaco-ex-fascista di Roma, fa visita alle Fosse Ardeatine ed esalta i valori della Resistenza come patrimonio comune degli italiani (se in modo sincero o strumentale, chi lo sa?), potrebbe stupire il silenzio della desta fiorentina di fronte alla perdita di uno dei simboli più importanti della Lotta per la Liberazione di Firenze. Potrebbe. Dovrebbe.
Noi di Informa Firenze intendiamo lasciare ad altri le astratte dissertazioni politiche intorno a valori e principi, così come le sterili disquisizioni sulla presunta “Riconciliazione”, che ha però sempre più il solo sapore della storia riscritta e della negazione. In tempi in cui in Italia si vuol far sparire perfino il darwinismo dai libri di scuola, si fatica a restare lucidi e calmi. Come se la “Riconciliazione” non si realizzasse ogni giorno quando ci esprimiamo liberamente. Quando leggiamo i giornali. Quando votiamo.
Quando abbiamo cercato “Foco” per l’intervista poi pubblicata sull’Informa Firenze di aprile, siamo partiti con l’idea sbagliata: quella di far domande e chiedere spunti a un “simbolo”. Simbolo di libertà, giustizia, fratellanza. Di eroicità. Uno scrigno di ricordi da cui attingere frasi importanti per impreziosire un articolo che dimostrasse un’idea. Certo, per rinfrescare la memoria di qualcuno. O per chiarire le idee ad altri.
Siamo partiti con un’idea non del tutto corretta, e ce ne siamo resi conto durante le diverse ore trascorse al telefono con Enio.
La persona con cui stavamo parlando, che ci stava raccontando la sua vita, che ci stava svelando episodi tristi oppure aneddoti semicomici del tempo delle notti d’inverno trascorse a fare la sentinella nei boschi, non era un simbolo. Non solo, almeno. Quello era un uomo. Anzi: un uomo che da ragazzo fece una scelta.
In un paese di “terzisti” e “ignavi”, per Dante disprezzati finanche dall’Inferno, già fare una scelta è cosa inconsueta. Un atto di coraggio eroico. Un atto di fede.
Quello che pare sempre meno chiaro ma che dovrebbe essere lampante è altro. E cioè che non tutte le scelte sono uguali. Ci sono scelte giuste e ci sono scelte sbagliate. Chi a quel tempo fece la scelta giusta, non può, non deve essere messo alla pari di chi al contrario optò per la scelta sbagliata. Categorie sempre pericolose, il “giusto” e lo “sbagliato”; ma, almeno in questo caso, è la Storia a definirne i limiti corretti.
Il racconto di Enio si snodò lungo tutto la sua vita. Iniziando a scrivere, poi, ci siamo resi conto che racchiudere tutto quel tesoro in due sole pagine era un’impresa molto complicata. Abbiamo così cercato di focalizzare l’attenzione, così, attraverso quella conversazione, su alcuni aspetti specifici.
Ci sono pseudo-intellettuali per autocertificazione che tornano periodicamente a insistere sulla necessità di “smitizzare” la Lotta Partigiana. Ovvio: a fini politici, e in modo becero, strumentale, ignorante.
Parlando con Enio, però, anche in noi è avvenuto un qualcosa di molto simile. Solo che, paradossalmente, la “nostra” smitizzazione ha reso ancora più forte il mito.
Quando le persone sono elevate a “mito”, la retorica porta a tracciare profili non sempre veritieri. Quantomeno, sopra le righe. Si annacqua un aspetto che, al contrario, è primario. Anzi, forse il più importante di tutti: l’aspetto umano.
Le parole di Foco ci hanno fatto ben capire che quella guerra fu una guerra tra il bene e il male. A combatterla sono stati uomini. Ragazzi. Donne. Esseri umani devastati dalla paura, dalla fame, dal coraggio, dalla speranza, che hanno scelto il “bene”, proprio e dell’umanità, e che si sono trovati a combattere contro un “male”. Un male composto anch’esso da esseri, sulla cui umanità è più che lecito porsi qualche dubbio.
Enio ci ha regalato il racconto di questa umanità. Di chi ce l’aveva e di chi l’aveva persa. Ci ha dipinto la sua infanzia punteggiata di domande alla mamma: perché i fascisti fanno male alla gente? Perché entrano nelle case e portano via i nostri amici? Perché?
Le domande di Enio da bambino non hanno mai trovato risposta. Presto, però, ne sono nate altre: Enio, insieme a tanti altri, ha replicato mettendo in gioco la propria vita per conquistarsi una libertà mai conosciuta e anche per questo così anelata.
Da quel momento e fino al 28 aprile scorso, Enio è stato il partigiano “Foco”. Un uomo che, con la sua vita, ci ricorda che le idee e gli ideali, senza uomini e donne pronti a combattere per essi, sono parole vuote come un mondo senza fiori e stelle. Questo era, ed è, essere vivo sotto una dittatura fascista: vivere in un mondo senza fiori e senza stelle. Che pure c’erano, erano lì, ed erano bellissime ma tu non avevi la libertà di riempirtene gli occhi e il cuore e il pensiero.
Vogliamo “smitizzare” i partigiani come Enio? Facciamolo, e ci accorgeremo che la memoria ne esce ancor più rafforzata. La leggenda, amplificata. Lasciamo cadere le vestigia del mito: “umanizzando” la storia si rendono più certi i confini di un territorio minato, dove negli ultimi anni chiunque si sente libero di dire tutto e il contrario di tutto, spingendo verso la radicalizzazione e la giustificazione per poi ricorrere a ipocrite prese di distanza quando qualche fesso ci casca davvero.
Perdere una persona come Enio Sardelli non solo ci addolora profondamente a livello umano; perdere uomini e donne come Enio fa nascere in noi una buona dose di preoccupazione. Quando anche gli ultimi testimoni di quell’epoca se ne saranno andati, cosa succederà in questa Italia così atta alle derive, così felice di voltare non pagina ma faccia, così predisposta a rinnegare se stessa e quello che il giorno prima era vero, il giorno dopo non lo è più?
La memoria di Enio Sardelli e di tutti coloro che parteciparono a quei giorni di sofferenza e speranza vive e continuerà a vivere nella Costituzione italiana, come lo stesso Foco tuonò pochi giorni prima di morire.
In noi, però, rimane la tristezza per la perdita di un amico che, non troppi anni fa, mise in gioco la sua giovane vita per regalare a noi, italiani di oggi, un mondo migliore. Fatto di stelle e fiori. Cerchiamo di meritarcelo.

Resistere, resistere, resistere!

ANPI Toscana
Tre giorni per festeggiare la Costituzione. E difenderla
Il 10, 11 e 12 ottobre prossimi alla SASCHALL con incontri, musica, dibattiti

Di Gianni Somigli

Vi avvertiamo: quello che vi apprestate a leggere è un articolo di parte. Di più: l’articolo che state per leggere non solo sta da una parte ma, accusateci pure di presunzione, sta dalla parte giusta.
Perché la parte giusta non è quella dettata dalla propria coscienza. Non sempre. Ci sono alcune volte in cui il giusto e lo sbagliato sono oggettivi. Netti. A volte, tra il bene e il male non ci sono sfumature, ed una scelta sbagliata resta quello che era e continua ad essere: una scelta sbagliata. Nonostante il giustificazionismo che parla di scelte fatte in buona fede, nonostante il revisionismo che vuol rileggere la storia e darle nuovi significati.

Probabilmente, i soldati delle SS erano in buona fede quando bruciavano ebrei, zingari, menomati, dissidenti.
Probabilmente, erano in buonafede i razzisti sudafricani per cui l’apartheid era cosa naturale, buona e giusta.
Probabilmente erano, e ancora sono, in buonafede i soldati comunisti cinesi in Tibet.
E probabilmente, erano in buonafede i fascisti che terrorizzarono, uccisero, violentarono prima, durante e dopo la guerra.
Buonafede che, come sarà facile intuire, non assolve certo da azioni che hanno segnato il corso della Storia.

Quella stessa buonafede che sicuramente albergava nel cuore e nelle azioni di Martin Luther King. Nelle battaglie di Nelson Mandela. Nella non violenza di Mahatma Gandhi, e di mille altri che lottarono e lottano per la parte giusta.
Negli USA, in India, in Sudafrica, nessuno si sognerebbe di mettere in discussione quale sia la parte giusta o la parte sbagliata: è la Storia che lo afferma. Nessuno si sognerebbe di dire che l’apartheid ha prodotto “anche cose buone”. O che, a parte qualche piccolo quiproquo, il razzismo in fondo non era (o è?) così male. In Germania nessuno avrebbe il coraggio di dire che “comunque” il nazismo creò posti di lavoro e rilanciò l’economia.
In Italia, invece, non solo ci si sogna di dirlo: si dice. E non sono solo discorsi di qualche nostalgico, di qualche xenofobo, no: sono libri che vendono milioni di copie, sono discorsi tenuti in occasioni ufficiali da Ministri della Repubblica, che hanno giurato sulla Costituzione.
Sono passati quindici anni da quando Indro Montanelli, dalle colonne della sua “Voce”, consigliava ai politici di rileggersela, quella Costituzione su cui si basa l’ordinamento democratico del nostro paese. Fu accusato di essere comunista, secondo la classica logica italiana del “o di qua o di là”. Caro Indro, le cose sono cambiate in quindici anni. In peggio. Fortunatamente, te ne sei andato prima di assistere a questo sfacelo. Avevi ragione tu: ma quali “magnifiche sorti, e progressive”.
Perché non si tratta di un “giochino” del tipo: qual è stato il male assoluto e quale il male relativo, cosa è stato il bene e cosa il quasi bene. Si sentono discussioni ridicole da varie parti, fatte da persone o personaggi di fronte ai quali viene da chiedersi in che mani siamo finiti, ma che soprattutto non sembrano rendersi che le proprie parole provocano delle reazioni. Soprattutto su chi è più malleabile, influenzabile, manipolabile; su chi forma le proprie opinioni solo ed esclusivamente su tali parole.
Così, mentre a Castello i “camerati” di “Quota 33” aprono un centro culturale (o presunto tale) dove discorrere della propria differenza dalla massa, esultando per “aver aperto una breccia nella rossa Firenze”, in nome ma soprattutto in difesa della Costituzione della Repubblica Italiana, l’ANPI TOSCANA organizza la prima festa regionale dell’ANPI: il 10, 11 e 12 ottobre prossimi alla SASCHALL di Firenze, una tre giorni di dibattiti, incontri, musica, per festeggiare i sessanta anni della nostra Carta fondamentale. E, viene da dire “purtroppo”, ancora per difenderne i valori, i principi, il messaggio.
«Per la Toscana, questa festa è una grande novità e un impegno per il futuro – dice Silvano Sarti, presidente dell’ANPI Provinciale Firenze -. La sfida del rinnovamento è aprirsi ai giovani, incontrarli, lavorare insieme. È questa la condizione principale affinché l’ANPI un’associazione di massa, in grado di rispondere agli attacchi di chi prova a mettere sullo stesso piano partigiani e repubblichini. Abbiamo il compito di riaffermare i valori della lotta partigiana, con sempre più forza e convinzione, per farli diventare, ogni giorno di più, di tutti gli antifascisti».«La Resistenza è stata una lotta giusta e dalla parte giusta. I valori che abbiamo difeso e costruito – prosegue Sarti - erano i valori fondamentali della nostra civiltà sovvertiti dalla dittatura fascista. Il nostro ruolo, oggi, è quello di consegnare alle nuove generazioni i valori della Resistenza, affinché non si annullino, ma si rafforzino. E visto l’impegno dei giovani dimostrato per la realizzazione di questa festa regionale dell’ANPI, si può ben sperare».

Fannulloni eccellenti...

Pubblica Amministrazione
Eccellenze e fannulloni, le grandi battaglie del “mini-Ministro”
Firenze cinque volte nella lista dei “buoni” di Renato Brunetta. E i cattivi...

Di Gianni Somigli

Gestione della qualità all’ITI-IPIA Leonardo Da Vinci; progetto del Comune “Innovazione e modernizzazione”; progetto “Web DPC: un sistema di supply chain farmaceutico” dell’ASL 10 Firenze, a cui appartiene anche il progetto “Modernizzazione e innovazione della prevenzione veterinaria” e infine il portale web “LineaComune.it”.
Il nome di Firenze risuona ben cinque volte tra le prime duecento storie di eccellenza della Pubblica Amministrazione. Per cinque volte Firenze risponde “presente” all’appello fatto dal ministro Brunetta. Quello fatto dal registro dei buoni, non dalla lista nera dei fannulloni, di cui forse avrete sentito parlare nei mesi scorsi, nonostante le reti televisive abbiano quasi oscurato la notizia...
Lasciamo la satira a chi (secondo politici, giudici e Chiesa) la “può” (non necessariamente “sa”) fare, e parliamo di quello che il ministro per la Pubblica Amministrazione e Innovazione, Renato Brunetta, ha fatto negli ultimi mesi.
Già in quest’ultima frase c’è un forte elemento di novità, di quelli che senz’altro fanno salire le quotazioni di gradimento verso il “mini-Ministro”: il verbo “ha fatto”. Un verbo a cui gli italiani sono stati poco abituati, dicono in tanti analisti frequentatori dei salotti televisivi, e la differenza sta tutta lì. Un Governo che fa, un Governo che agisce, un Governo decisionista come il suo Capo: così si spiega l’apprezzamento, o presunto tale, verso l’Esecutivo.
Noi non frequentiamo neanche gli ingressi degli studi tv, figuriamoci i salotti. Ma troviamo semplicistico il ragionamento. Le conclusioni, scontate, ovvie, quantomeno affrettate. Un consenso creato per creare consenso.
È senz’altro vero che in uno strano Paese come il nostro, abituato alle paralisi istituzionali dovute alla litigiosità politica (intesa come “tra politici”, non con argomenti politici alla base), verbi come “agire” e “decidere” suonano nuovi e importanti. Sponsorizzati e venduti poi dall’Uomo del Fare, come solo il Presidente del Consiglio sa proporsi, ancora di più.
Ci ostentiamo a credere che agire sia importante, ma che rimanga una differenza essenziale, non da poco, tra “fare bene” e “fare male”. Dicono: lasciateci lavorare. A parte che tecnicamente non si avrebbero comunque strumenti per farli smettere, è giusto, ci chiediamo ingenuamente, fingere che questa sia la prima volta che “li lasciamo lavorare” e che sia quindi giusto fidarsi?
Ognuno darà le sue risposte, magari facendosi due conti in tasca prima di guardare Porta a Porta o un qualche telegiornale.
Un po’ per abitudine, un po’ per fiorentinità, siamo portati ad una certa diffidenza verso chi ci governa. Spesso, se non sempre.
Come porsi dunque verso il ministro Renato Brunetta e la sua battaglia contro i fannulloni ed a favore delle “pratiche di buon governo”?
Le voci a proposito sono tante: ci sono diverse persone che sostengono che, in fondo, non è cambiato proprio nulla. Ma c’è chi dice che la verità è un’altra. Che è cambiato tutto, che i “fannulloni” adesso lavorano, col mini-Ministro che sventola percentuali da capogiro sugli effetti delle sue circolari, quasi miracolosi nel debellare le malattie. «Sono il primo ministro con poteri taumaturgici» dichiarò il baldanzoso Brunetta in tv.
Ed è qui che semmai arriva l’inghippo.
Il ministro Brunetta ha fino ad ora saputo dove andare a colpire. Indubbiamente, ha saputo affrontare uno dei vulnus più vituperati dagli italiani: l’inefficienza delle Amministrazioni Pubbliche, un vulnus divenuto quasi luogo comune. Un farraginoso, vecchio gigante con cui tutti ci siamo scontrati e da cui, pressoché sempre, ne abbiamo buscate.
Non siamo in grado di sostenere che i provvedimenti brunettiani siano realmente taumaturgici, né che essi siano al contrario solo “spot” populisti i cui effetti non modificheranno il ventre molle dell’apparato statale.
Quello che è certo è che il professore Brunetta ha saputo impersonare un ruolo accattivante, svecchiando l’immagine di un sistema agonizzante, anche attraverso concorsi, vignette, battute. Un linguaggio popolare, un “antiburocratichese” per parlare di burocrazia. E nonostante non si possa dire (non ce ne voglia il mini-Ministro) che sia un bell’uomo, è indiscutibile che Brunetta in televisione ci sappia stare. Che sappia usare il mezzo, strizzare l’occhio al pubblico, accreditandosi come uno dalla sua parte che lotta per cambiare le cose.
Se sia un affabulatore o un modernizzatore reale, è troppo presto per dirlo. In questo caso crediamo sia giusto “lasciarlo lavorare”, lasciarlo “fare”, per poi giudicare (col voto) se ciò che è stato fatto, sia stato fatto bene o sia stato fatto male.
Siamo ormai un paese di disillusi: chissà in quale dei due casi rimarremmo più sorpresi.

martedì 13 maggio 2008

Chiedi chi era... PEPPINO IMPASTATO

Chiedi chi era Peppino Impastato. Chiedilo a chi l’ha conosciuto, a chi ha sognato, lottato, sofferto con lui, per lui. Chiedi chi era Peppino Impastato: Peppino era un ragazzo, un ragazzo di Sicilia, siciliano di Cinisi, siciliano geniale e arrogante, e ribelle. Peppino era un figlio: figlio di un padre mafioso e di una madre divenuta leggenda.
Peppino Impastato era un rivoluzionario, un’idealista. Scriveva poesie, Peppino, mettendo in rima la protesta non violenta contro la violenza della mafia, del potere politico colluso e del silenzio assordante dell’accondiscendenza; urlava il suo no dai microfoni di Radio Aut, Peppino, declamando la sua Commedia non divina ma cretina, dove i peccati si dicevano e i peccatori si sbeffeggiavano per nome. Quei peccatori che sarebbero stati, il 9 maggio 1978, i suoi aguzzini; quei peccatori che hanno violentato la sua memoria, la sua lotta, hanno infangato o ci hanno provato, ma senza riuscirci, non fino in fondo.
Trenta anni fa Peppino Impastato era brandelli di corpo sparsi intorno a una ferrovia. Pezzi di carne come semi di speranza seminati sulla terra di Sicilia e di Italia, così assetate di speranza, legalità, di rivoluzionari in grado di opporsi con cultura di vita a una non cultura di morte. Terre innaffiate con sangue innocente di persone innocenti in cui la speranza non germoglia, ma annega.
Chiedi chi era Peppino Impastato.
Chiedi chi era Peppino Impastato e poi deponi un fiore sulla tomba italiana della libertà. Che non è mai morta, perché mai è stata viva, se non nella voce e nei brandelli e nel sangue.
Chiedi chi era Peppino Impastato, e capirai perché oggi Mangano è un eroe.
Perché abbiamo perso, Peppino. Anche se ogni tanto ci fanno pensare che ci sia stata e ci sia ancora una partita da giocare.
(Gianni Somigli - Informa Firenze - maggio)

Dedicato al presidente del Senato della Repubblica italiana, Renato Schifani, siciliano.

mercoledì 2 aprile 2008

Popper non serve solo per il dietro

Come fanno notare in questi giorni autorevoli esponenti del giornalismo italiano e non solo, adesso che vengono meno -o quasi- le risse (anche verbali...) tra i politici, quasi quasi ne sentiamo la mancanza. E ci lamentiamo: che campagna moscia!
Anche Sartori lo nota oggi nel suo editoriale sul Corriere, declinandolo però sul piano della colpa al candidato premier Veltroni, il quale dovrebbe, secondo il politologo fiorentino, alzare i toni per recuperare e tentare l'impresa disperata.
Tutto questo, se ancora ce ne fosse bisogno, dimostra con estrema chiarezza un fatto semplice al quale ci dobbiamo serenamente rassegnare: l'Italia e gli italiani sono un popolo democraticamente e politicamente non maturo.
Un popolo abituato a spaccarsi su tutto, prestando il fianco delle proprie divisioni alle strumentalizzazioni politiche ora di una parte, ora dell'altra. Spaccature che vicono dell'odio per il nemico, sobillato a dovere dal politico di turno.
La storia è vecchia come il mondo.
Anzi, come un po' dopo: è dall'introduzione della "divinità unica", infatti, che la visione del mondo e della vita è divenuta duale. Bene contro male, e il male dev'essere distrutto.
Prima di questa vera rivoluzione, filosofica, sociologica, antropologica, il bene e il male esistevano in misure confuse e fuse tra loro. Lo dimostrano le divinità greche: un po' buone, un po' cattive, preda di passioni, ire, e ogni tratto umano. Dall'entrata in scena delle religioni monoteiste, invece, la spaccatura tra il bene e il male è divenuta irreparabile; nello stesso tempo, il bene è facilmente -superficialmente?- identificabile, così come il male.
La famosa "visione manichea", insomma. Una teoria che trova riscontro nei tempi bui del medioevo e dei guelfi contro i ghibellini, di Pisa contro Firenze, e così via. Una teoria che, più recentemente, sta alla base (o meglio, nel retroterra) del Mein Kampf e del Nazismo. O, ancora più recentemente, lo schema in cui si muove e vive la vita politica di Silvio Berlusconi: se prima erano ebrei, massoni e borghesia, adesso il nemico sono i "comunisti", i magistrati, i giornali.
Tale teoria è stata sostenuta qualche tempo fa da Karl Popper, che qualcosa di sensato lo ha detto.
- - -
Avere un nemico da combattere e abbattere, in qualche modo, è rassicurante.
Crea un fortissimo spirito di identificazione, rafforza l'appartenenza a un "Noi" espressione del bene contro gli "Altri", vessillo del male.
Ora che queste categorie ci vengono -o quasi- a mancare, in una campagna elettorale all'insegna del "volemose bene", si ha la sensazione che alle persone-elettori vengano a mancare i punti di riferimento che ne hanno segnato la vita politica imbevuta e imperniata di religiosità.
Italiani vs austriaci; fascisti vs antifascisti; repubblicani vs monarchici; DC vs Pci; antiabortisti vs abortisti; prima repubblica vs mani pulite e giustizialisti vs garantisti; berlusconiani vs antiberlusconiani. E così via, perchè ognuna di queste categorie contiene ulteriori sottospaccature: basti guardare alle scissioni di comunisti in due, di fasciti in due, e così via.
Non appena il clima politico si fa vagamente più disteso, interviene uno spaesamento pienamente giustificabile da un punto di vista antropologico. Le bussole impazziscono. Questo, palesemente, misura il grado di pochezza politica e culturale della maggior parte del popolo italiano. Anche l'elettorato di appartenenza, in qualche modo, rischia di vedere affievolito il proprio attaccamento al "Noi", al "Bene", per sconfiggere e distruggere il "Loro", il Male.
Se non c'è un nemico da distruggere, perché mobilitarsi?
Un atteggiamento poco maturo che si riflette nella pochezza del dibattito politico che sfugge allo scontro. Ma che, tuttavia, segna la realizzazione di un'evoluzione del mondo segnata dagli ultimi decenni: una personalizzazione sociale sfociata in uno spietato individualismo che fa di ognuno di noi, a seconda della bisogna, un cittadino, un lettore, un elettore, un consumatore. Così come le vaschette di insalata monoporzione, anche la politica veste i panni della soluzione individuale da consumare sprofondati in una poltrona con la mente immersa e sommersa in uno schermo televisivo che ci racconta le stesse promesse di trenta, quaranta anni fa.
Viene dunque meno la logica del "bene comune", dell'ideale, dell'ideologia.
Cosa fare, dunque?
Le soluzioni plausibili non possono che essere, guarda caso, due e in conflitto tra loro.
Numero uno: aridatece le vecchie risse. In cui uno non capisce nulla di nulla, ma in cui si offende l'altro, e ci si diverte tutti insieme. Così ci sentiamo tutti più tranquilli e facciamo il nostro dovere di elettori delle forze del bene.
Numero due: questa, per la prima volta, potrebbe essere il vero approdo della democrazia reale in Italia. Imparando dagli errori degli ultimi sessanta anni, mettendo a punto una legge elettorale decente e abolendo il bicameralismo perfetto, istituendo una sorta di responsabilità soggettiva del politico, non resta che aspettare e coltivare una nuova cultura democratica. Abbandonando la politicizzazione di tutto l'esistente e lo scibile umano, mettendo più in rilievo il merito e la capacità individuale "laica".
Insomma, tornare indietro o guardare avanti.
Dato che la scelta da fare è nelle mani di chi dal passato viene, da coloro che "dietro" si sentono a loro agio -in senso figurato e non-, i pronostici non fanno certo ben sperare.
"Le magnifiche sorti, e progressive", ora come allora, rimangono sulla carta.
Igienica, temiamo.

sabato 29 marzo 2008

La decenza ha un limite?

Va bene che, non troppo tempo fa, Silvio Berlusconi citava l'Elogio della Pazzia come uno dei testi fondanti della sua cultura, del suo carattere, della sua smisurata personalità. Va bene, certo, almeno fino al momento in cui si rimane nei limiti della decenza.
C'è qualcosa di comico, di profondamente comico, in quello che accade in Italia. Una comicità che un po' di anni addietro era ricalcata, dilatata, ma non storpiata, nei film con Totò, con Albertone, e compagnia.
Scritto da uno sceneggiatore di uno di quei film, o da un cabarettista, o perché no da un commediografo del grottesco e dell'assurdo, il copione della vita politica (ma non solo) italiana non potrebbe essere più delirante.
Da tre o quattro giorni, il Re del PDL è tornato a urlare ai brogli, che, si sa, sono prerogativa naturale e storicamente accertata della Sinistra e delle Sinistre. Ieri, l'ultimo straziante grido di allarme.
Tutto secondo le regole che da quindici anni siamo costretti a sorbire, se non che, proprio ieri, il colpo di scena: due presidenti di seggio, in Sicilia, a Palermo, arrestati per aver falsificato almeno (!) quattrocento schede in favore di una lista in appoggio al sindaco italoforzuto di Palermo, Cammarata.
Che dire: presidente Berlusconi, dovrebbe scegliere meglio i suoi seguaci. E' proprio lì che si annidano i peggiori comunisti, a quanto pare.
La domanda è: la decenza, ha un limite?
La risposta più evidente, ogni giorno più evidente, è no. Oppure sì, ma il limite si sta spingendo sempre più in là. E guardate che mica è facile. Ma è per questo che Dio ci ha spedito quaggiù il Re.
Se invece si volesse fare un discorso un po' serio ed approfondito, ci si dovrebbe chiedere: come mai nemmeno durante l'egemonia Dc i risultati elettorali in Sicilia avevano avuto esiti così clamorosi? Cappotto, tutti i seggi al Senato al Centrodestra. Una cosa mai vista. Mai vista perchè praticamente impossibile ma resa possibile da straordinarie forze non sovrannaturali quanto certamente sovralegali, diciamo.
Volendo fare un discorso un po' più serio, dovremmo chiederci: come mai non un giornalista, ieri, al grido di allarme di Berlusconi, ha risposto facendo notare che due dei suoi erano stati messi in manette esattamente per quel reato?
Il sonno della coscienza genera mostri, si sa; il dormiveglia dell'idiozia sarebbe ancora peggiore, se un comportamento del genere potesse essere ascritto all'ignoranza, all'incapacità, e così via. Invece no: c'è malafede, c'è strumentalità nelle domande non fatte, c'è collusione.
C'è volontà di far parte del gioco dei grandi, e di farne parte raccattando le briciole.
E' questo il senso dei cortei di giornalisti che seguono le corti. Una manica di accattoni, di morti di fame, magari con una buona penna. Avere una buona scrittura non significa essere un giornalista. Essere morti di fame non ti costringe a calarti le brache.
E non mi si venga a raccontare che è sempre stato così.
So anche io che il sistema funziona in questo modo. E che uno, da sè, non può far nulla. E allora? Questo esime dal provarci? Almeno dal provarci?
Il giornalista ha sì il dovere di raccontare. Anzi: quello è il dovere del cronista. Il giornalista dovrebbe avere, anzi deve, il compito sì di raccontare, ma la verità. Una cosa complicata, certo, eppure tanto semplice.
Perchè prima si deve avere la volontà di farlo.
Volontà.