mercoledì 2 aprile 2008

Popper non serve solo per il dietro

Come fanno notare in questi giorni autorevoli esponenti del giornalismo italiano e non solo, adesso che vengono meno -o quasi- le risse (anche verbali...) tra i politici, quasi quasi ne sentiamo la mancanza. E ci lamentiamo: che campagna moscia!
Anche Sartori lo nota oggi nel suo editoriale sul Corriere, declinandolo però sul piano della colpa al candidato premier Veltroni, il quale dovrebbe, secondo il politologo fiorentino, alzare i toni per recuperare e tentare l'impresa disperata.
Tutto questo, se ancora ce ne fosse bisogno, dimostra con estrema chiarezza un fatto semplice al quale ci dobbiamo serenamente rassegnare: l'Italia e gli italiani sono un popolo democraticamente e politicamente non maturo.
Un popolo abituato a spaccarsi su tutto, prestando il fianco delle proprie divisioni alle strumentalizzazioni politiche ora di una parte, ora dell'altra. Spaccature che vicono dell'odio per il nemico, sobillato a dovere dal politico di turno.
La storia è vecchia come il mondo.
Anzi, come un po' dopo: è dall'introduzione della "divinità unica", infatti, che la visione del mondo e della vita è divenuta duale. Bene contro male, e il male dev'essere distrutto.
Prima di questa vera rivoluzione, filosofica, sociologica, antropologica, il bene e il male esistevano in misure confuse e fuse tra loro. Lo dimostrano le divinità greche: un po' buone, un po' cattive, preda di passioni, ire, e ogni tratto umano. Dall'entrata in scena delle religioni monoteiste, invece, la spaccatura tra il bene e il male è divenuta irreparabile; nello stesso tempo, il bene è facilmente -superficialmente?- identificabile, così come il male.
La famosa "visione manichea", insomma. Una teoria che trova riscontro nei tempi bui del medioevo e dei guelfi contro i ghibellini, di Pisa contro Firenze, e così via. Una teoria che, più recentemente, sta alla base (o meglio, nel retroterra) del Mein Kampf e del Nazismo. O, ancora più recentemente, lo schema in cui si muove e vive la vita politica di Silvio Berlusconi: se prima erano ebrei, massoni e borghesia, adesso il nemico sono i "comunisti", i magistrati, i giornali.
Tale teoria è stata sostenuta qualche tempo fa da Karl Popper, che qualcosa di sensato lo ha detto.
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Avere un nemico da combattere e abbattere, in qualche modo, è rassicurante.
Crea un fortissimo spirito di identificazione, rafforza l'appartenenza a un "Noi" espressione del bene contro gli "Altri", vessillo del male.
Ora che queste categorie ci vengono -o quasi- a mancare, in una campagna elettorale all'insegna del "volemose bene", si ha la sensazione che alle persone-elettori vengano a mancare i punti di riferimento che ne hanno segnato la vita politica imbevuta e imperniata di religiosità.
Italiani vs austriaci; fascisti vs antifascisti; repubblicani vs monarchici; DC vs Pci; antiabortisti vs abortisti; prima repubblica vs mani pulite e giustizialisti vs garantisti; berlusconiani vs antiberlusconiani. E così via, perchè ognuna di queste categorie contiene ulteriori sottospaccature: basti guardare alle scissioni di comunisti in due, di fasciti in due, e così via.
Non appena il clima politico si fa vagamente più disteso, interviene uno spaesamento pienamente giustificabile da un punto di vista antropologico. Le bussole impazziscono. Questo, palesemente, misura il grado di pochezza politica e culturale della maggior parte del popolo italiano. Anche l'elettorato di appartenenza, in qualche modo, rischia di vedere affievolito il proprio attaccamento al "Noi", al "Bene", per sconfiggere e distruggere il "Loro", il Male.
Se non c'è un nemico da distruggere, perché mobilitarsi?
Un atteggiamento poco maturo che si riflette nella pochezza del dibattito politico che sfugge allo scontro. Ma che, tuttavia, segna la realizzazione di un'evoluzione del mondo segnata dagli ultimi decenni: una personalizzazione sociale sfociata in uno spietato individualismo che fa di ognuno di noi, a seconda della bisogna, un cittadino, un lettore, un elettore, un consumatore. Così come le vaschette di insalata monoporzione, anche la politica veste i panni della soluzione individuale da consumare sprofondati in una poltrona con la mente immersa e sommersa in uno schermo televisivo che ci racconta le stesse promesse di trenta, quaranta anni fa.
Viene dunque meno la logica del "bene comune", dell'ideale, dell'ideologia.
Cosa fare, dunque?
Le soluzioni plausibili non possono che essere, guarda caso, due e in conflitto tra loro.
Numero uno: aridatece le vecchie risse. In cui uno non capisce nulla di nulla, ma in cui si offende l'altro, e ci si diverte tutti insieme. Così ci sentiamo tutti più tranquilli e facciamo il nostro dovere di elettori delle forze del bene.
Numero due: questa, per la prima volta, potrebbe essere il vero approdo della democrazia reale in Italia. Imparando dagli errori degli ultimi sessanta anni, mettendo a punto una legge elettorale decente e abolendo il bicameralismo perfetto, istituendo una sorta di responsabilità soggettiva del politico, non resta che aspettare e coltivare una nuova cultura democratica. Abbandonando la politicizzazione di tutto l'esistente e lo scibile umano, mettendo più in rilievo il merito e la capacità individuale "laica".
Insomma, tornare indietro o guardare avanti.
Dato che la scelta da fare è nelle mani di chi dal passato viene, da coloro che "dietro" si sentono a loro agio -in senso figurato e non-, i pronostici non fanno certo ben sperare.
"Le magnifiche sorti, e progressive", ora come allora, rimangono sulla carta.
Igienica, temiamo.