giovedì 29 aprile 2010

Mosaico emozionale di una liturgia pagana



Pomeriggio tardo e tiepido. Odore di panini nell’aria. Gente accalcata ai cancelli verdi del Mandela. Cori. Magliette tarocche a venti euro. Bicchieri di birra. Sosia di Piero a decine. Capelli lunghi, basette a saetta. Zaini. Bandiere. Un sosia di Ghigo. L’unico nel mondo. Chissà che passa in testa alla gente, chissà. Porchette in esposizione. Speranze. Canzoni appena abbozzate. Cancelli aperti e ragazzi che corrono. Attesa rumorosa. Fumo che inizia a salire verso il cielo alto del palazzetto. Gente. Tanta. Arrivano come un’onda del mare che si affastella sotto a un palco e che resta lì. Niente riflusso, stasera. Gioia. Speranze. Cori. Qualche canna che gira. Qualche bottiglia di vino. Birra. Note. Vocio indistinto fino al buio. Giubilo. Mani che fendono l’aria tremando. Urla. Luci rosse. Ghigo e Piero entrano insieme. Il braccio di Piero sulle spalle di Ghigo. Dopo dieci anni. Urla. Luci rosse. Delirio. Benvenuti nello stato libero di Litfiba. Bentornati. Siamo sempre stati qui. Nonostante l’interruzione. Qui. A urlare. In delirio. Pro pro, proibito. Salti. Spallate. Non una parola va persa. Ogni bocca è una sola. Quella di Piero. Urla. Luci gialle. Addominali dolenti. Almeno ti ricordi di averli, da qualche parte. Polpacci dolenti. Gole dolenti. Magnifico, liberatorio dolore. Doccia di sudore. Dio. El Diablo. Ratzinger. Tex. Ferito. Animale di zona. Fata Morgana. Accendini. Ci sei solo tu. Sorrisi. Paname. Abbracci tra discepoli del suono e della parola. Fanculo l’onore. Fancu-lo la mafia. Con dedica speciale ai politici poltronati. Ad uno in particolare. Voglio il colpevole. Lo voglio qui. Maudit. Domanda: perché ai concerti sono sempre tutti più alti di te? Il plesso solare è un appartamento in bilico tra l’esplosione e l’implosione. Alla base del collo si sono dati appuntamento tutti gli spilli del mondo. Sono tutti qui. Mentre salti. Con Piero. Mentre non dici più Piero, non dici più Ghigo, dici Litfiba, lo urli così forte che le tempie si dilatano e la tua faccia diventa un quadro di Picasso. Periodo blu. Urla. Sogni. Rabbia. Spallate. Poghi. È qui che eravamo rimasti col discorso? È qui che siamo rimasti. Intrappolati sul pavimento appiccicoso. Nel sudore che imperla le ossa. Nella voce che se ne va. La getti sul palco. Sull’altare. La getti all’officiante. In sacrificio allo sciamano. Liturgia. Liturgica sensazione di appartenenza. Liturgica rivendicazione dell’essere contro. Liturgica rivendicazione di non accettare. Di strillare contro tutto e tutti. Di esserci. Di essere lì. Lì. Non altrove. Qui. Liturgica estatica sensazione di sfinimento. Fanculo l’onore, fanculo l’omertà, fanculo la moderazione, fanculo il dialogo. Voglio il colpevole, lo voglio qui. Applausi. Urla. Litfiba. Un dito medio che si alza. Voglia di essere cattivi. Più cattivi del mondo che ti vuole addormentato e fe-lice. È un riff. È una musica. È una celebrazione che non si dissolve con le luci che si riaccendono. Il brusio è sfuocato come una diapositiva venuta meglio delle altre. Ed una pervadente sensazione di dolore fisico. Così totale da farti stare bene. Come se avessi sputato il veleno e l’odio. Svuotato. Come una seduta di psicanalisi. Come una messa. Una liturgia. Il pagano rituale collettivo di un popolo ritrovato. L’uscita in massa, nella corrente di un fiume placido di facce entusiaste, di bocche sorridenti, di occhi stravolti. Bentornati Litfiba. Bentornati a casa. Bentornati da noi. Bentornati dalla vostra famiglia. (Gianni Somigli)

venerdì 23 aprile 2010

Nemico


Cosa può provare chi, come me, ieri sera ha guardato Annozero? Cosa si prova, guardando mamme trentenni trasformarsi in bestie feroci, pronte a sbranare altre mamme trentenni, solo un po’ più scure? Cosa può provare chi si trova davanti un sindaco che istiga alla violenza, all’odio razziale, che ne trae beneficio e forza in termini elettorali, che cavalca e che alimenta?
Io, personalmente, ho provato una grande, grandissima tristezza. Ho provato paura osservando ammutolito lo sdoganamento di così tanta violenza verbale e non solo. Mi sono sentito avvilito davanti al povero Sandro Ruotolo, che “da 22 anni lavoro con te, Michele, ma un clima d’intolleranza, di razzismo come quello di stasera non l’avevo mai incontrato”.
Perché Ruotolo non era mica ad un ritrovo del Ku Klux Klan. Era in una sala normale di un palazzo normale di un paese normale, attorniato da gente normale, rabbiosa per essere stata dipinta come razzista mentre insulta e continua a dire “voi extracomunitari”. Non a dire. A strillare, ad abbaiare.

Sono quelle stesse facce che a gennaio mi dicono che non devo dimenticare gli ebrei morti. Sono loro, e mi governano. Sono loro che mi ripetono dell’importanza della “memoria”. Perché non accada più. Mentre è accaduto, sta accadendo, accadrà.

Sempre. Nonostante tutto, l’essere umano resta ciò che è. Un animale violento e brutale. Che quando ha fame non vuole cibo per sfamarsi. Vuole un nemico da sbranare.

Povera Italia. Poveri noi.