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martedì 24 novembre 2009

Politica e bizona: il modello 5-5-5


Di Gianni Somigli

Un bel giorno, un professore di matematica entra in aula per fare lezione. Si toglie il cappotto, saluta gli studenti, invita ad aprire i manuali. Dopodiché, si schiarisce la voce e dice: “Alessandro Manzoni era un analfabeta, un vero deficiente”. Come reagirebbero gli studenti di fronte a un’affermazione così estemporanea e fuor di competenza? Forse, esattamente come gli elettori di fronte al ministro per l’attuazione del programma di governo, Gianfranco Rotondi, che spara a zero contro la pausa pranzo.

Già che il ministro Rotondi spari a zero fa sobbalzare sulle sedie. Anche che Rotondi sia ministro è imbarazzante. E sorvoliamo sulla necessità di un ministero per l’attuazione del programma.
Ma come può essere, per quale motivo, con quale autorità un ministro deve “esternare” a proposito di un argomento che nulla c’entra con la propria carica istituzionale, per giunta ridicolo? E com’è possibile che giornali e tv possano dare spazio restando seri, chiedendo pareri, approfondimenti e commenti?

Eppure, pare essere diventato un trend irrinunciabile. Ignazio La Russa, tanto per fare un esempio, ormai in preda a terrificanti disordini lessicali, pensa di essere ministro dell’Attacco, parlando di “finte istituzioni europee”, e della Difesa, ma non del sacro suolo italico, bensì del crocifisso nelle aule di scuola. Titubando ulteriormente sull’intrinseco valore della carica ricoperta, il diastematico ministro fa passare solo qualche giorno prima di lasciarsi andare a un indefesso: “In aula difenderei Moggi”. Arduo difendere Moggi e Gesù Cristo crocifisso nella stessa settimana. Attendiamo che il ministro, per completare il quadro, assuma come consulente uno tra Billy Costacurta, Tarzan Annoni o Pasquale Bruno.

Il ramo culturale non può certo tralasciare Renato Brunetta: dall’alto della sua poltrona da ministro della funzione pubblica, dichiara che la sinistra, “parte peggiore del paese”, dovrebbe “morire ammazzata”; che la mostra del cinema di Venezia è una “mostra di parassiti”; che i “poliziotti sono dei panzoni”; che gli studenti dell’Onda “vanno trattati come guerriglieri”.
Ci sono poi veri maestri del settore. Ma evitiamo l’avventura nello sterminato e impervio repertorio del presidente del consiglio perché il 2012 è troppo vicino.

Quando queste “gaffe”, queste “battute”, o “provocazioni” invadono lo spazio del dibattito pubblico, la gente reagisce in due modi: pro o contro, a seconda della bandiera di chi espone tali illuminanti concezioni della vita e della pausa pranzo, a prescindere da essi.

Ma quelle “sparate”, quelle “gaffe”, quelle “battute” e quelle “smentite” non sono leggerezze. Esse fanno parte di una strategia di comunicazione precisa. Un modello che si pone a metà tra la comunicazione politica e quella pubblicitaria, fondato sulla personalizzazione sempre più accentuata della dimensione pubblica. Non importa ciò che si dice, chi si attacca, e i termini, più fanno scandalo, meglio è.

Succede tutto questo negli altri stati? Certo che succede. Succede perché ormai dovunque la politica vive d’immagine, e l’immagine di mezzi di comunicazione.
Esiste però una differenza sostanziale tra il nostro paese e gli altri Stati avanzati. In nessun altro posto il concetto di “campagna elettorale permanente” si è radicato come da noi, diventando praticamente l’unica modalità politica praticata.

Colpa dei politici? Sì, ma non solo. Una buona dose di responsabilità deve essere addebitata agli elettori. Da molte parti, gli elettori/consumatori sono indicati come ormai assuefatti e passivi. Un’ipotesi che può essere vera, ma che produce un effetto tutt’altro che scontato: quello della “fame da gaffe”. Insomma, la politica in senso tradizionale ormai non interessa più a nessuno, è considerata noiosa, roba da “vecchi arnesi”; e allora, cosa può esserci di meglio di un bel ring televisivo in cui si confrontano ministri, starlette e divi del cinema su qualsiasi argomento in modo indistinto?

Il modello di comunicazione politica contemporanea trova un illustre antesignano: Oronzo Canà e il suo 5-5-5. «E in mezzo a tutto ‘sto casino, gli altri non capiscono più un chezzo e noi, zak!, segniamo!».
Un’analisi preveggente che illustra alla perfezione ciò che succede oggi. Nella baraonda generale, in cui tutti dicono tutto e il contrario di tutto, gli altri, cioè gli elettori, non ci capiscono più un chezzo e alcuni, zak!, segnano.

Entrambi gli schieramenti latitano in modo imbarazzante sui contenuti. Ma, seguendo fedelmente il 5-5-5, il centrodestra non comunica nulla ma lo fa bene; il centrosinistra non comunica nulla e lo fa pure male. A parità di scatole vuote, quelle berlusconiane scintillano e stupiscono; quelle di sinistra sono polverose, cupe e smorte.

È come se il centrosinistra parlasse una lingua morta, insistendo sul fatto che l’opposizione si fa sui contenuti: ma a quanti, nel paese, interessano davvero i contenuti più dei contenitori? A guardare la sinistra oggi pare di vedere gli indiani che sfoderano arco e frecce contro i fucili dei cowboy, o i samurai giapponesi che galoppano spada in pugno contro i mitragliatori automatici ne “L’ultimo samurai”.

Come uscire da questa situazione? Un ruolo fondamentale dovrebbe essere quello della stampa. Dovrebbe essere il giornalista a smascherare i meccanismi che stanno dietro a certe logiche; dovrebbe essere il giornalista a destrutturare, semplificare e spiegare al corpo elettorale come funzionano gli ingranaggi del “Palazzo”.

L’impressione, però, è che anche la stampa abbia abdicato: un clima di guerra continua, una feroce campagna elettorale che dura dodici mesi l’anno, offre mille spunti di polemica, mille titoli, mille litigi, mille scontri che comprensibilmente fanno aumentare vendite e introiti.

Eletti, elettori e “cani da guardia” giocano tutti allo stesso gioco. Se questo sia un fatto positivo o negativo, ognuno la pensa come vuole. Del resto, anche la Longobarda si salvò all’ultima giornata col 5-5-5 dopo un campionato truccato. Potrebbe essere un buon auspicio. Ma anche no.


martedì 31 marzo 2009

Zum zum zum


Era nell'aria ormai da tempo e in tanti articoli si parlava della guerra sotterranea che stava scuotendo alle fondamenta il Corrierone nazionale ed ecco la notizia che finalmente esce, con il buon Paolino Mieli che lascia la poltrona per andare ad occupare la presidenza di Rcs Libri, al suo posto in via Solferino ecco Ferruccio De Bortoli, che lascia il posto di direttore del Sole 24 Ore a Gianni Riotta che abbandona il posto di direttore del Tg1 che resta vacante ancora per un po' prima di passare, udite udite, a Belpietro, sì, a Belpietro, davvero a Belpietro, così come direttore generale della Rai diventerà Masi, attuale segretario generale della presidenza del consiglio, e bla bla bla. Nel frattempo, Mario Chiesa è stato arrestato per tangenti. Quando ho letto l'agenzia stamani pensavo fosse uno scherzo. Visto l'andazzo, è probabile che a Rosa e Olindo facciano aprire un asilo nido a Erba.

Di fronte a tutto questo... Mah, che dire. Purtroppo, si inizia a provare indifferenza anziché insofferenza; letture pallide senza approfondimenti emozionali, strade segnate senza deviazioni in vista. Personalmente, sto seduto sulla mia seggiolina e guardo la gente impegnata nei tanti valzer: non mi è mai piaciuto ballare, e se ballo, ballo da solo. Così mi pesto i piedi quanto mi pare e piace.

giovedì 26 febbraio 2009

Se in pentola bolle il nulla


Siamo o non siamo, in Italia, sotto un regime? Da più parti, da più anni, si levano voci e accuse, manifesti e manifestazioni. E se oggi Di Pietro addita l’attuale Governo Berlusconi, come non ricordare la piazza sventolante bandiere di Forza Italia, Lega, AN e UDC di fronte a un palco su cui campeggiava a caratteri cubitali: “Contro il regime”.

Come spesso accade, com’è sempre accaduto e come continua ad accadere, le parole, quando vengono usate come simboli, o slogan evocativi, perdono il loro significato, si attenuano, si svuotano. Regime riporta alla mente quel signore in camicia nera e dalla zucca pelata, quei venti anni di omicidi e dittatura che, ancora, qualcuno si ostina a difendere con banalità come “furono fatte strade, furono fatti ponti, fu fatto il Concordato”.

L’uso smodato del termine “regime” lo ha reso docile, inoffensivo: se tutto è regime, allora niente è regime. E non vale più neanche la pena di andare a controllare se le accuse siano fondate o meno: “regime” non bolla più il destinatario dell’aggettivo, ma il mittente, che per l’uso stesso della parola diviene automaticamente populista, illiberale, illogico.
Spesso si sente dire che la politica viaggia quattro o cinque passi indietro rispetto alla società e al mondo reale, insomma, alle persone che essa, la politica, dovrebbe essere chiamata a rappresentare. Riflessione vera, ma senza sbocchi: chiedere alla classe politica, soprattutto quella attuale, di anticipare e indirizzare, oltre che rappresentare, le volontà e le voluttuosità popolari, sarebbe davvero troppo.

C’è un altro aspetto che colpisce l’attenzione e fa riflettere, e che si ricollega direttamente a quello che si è analizzato in precedenza.
La politica, o meglio i politici, fanno questo uso indiscriminato, spesso scellerato, di parole. Parole ridondanti, spesso assordanti, dal significato etimologico catastrofico. Parole che vengono buttate in mezzo un po’ per confondere le idee, un po’ perché si è in quella che viene definita “campagna elettorale permanente” e quindi i toni devono restare alti all’infinito. Parole che quindi diventano contenitori lessicali senza contenuto, soprattutto quando sono urlate ora da un palco, ora da un seggio, oppure da uno schermo. Parole vecchie. Non più rappresentative.

Ma è il caso di fare un ulteriore salto di qualità, perché questo è il punto vero, quello che può rispondere alla domanda con cui si è aperta questa riflessione. Siamo o non siamo, in Italia, sotto un regime? Forse non sono solo le parole ad essere vecchie. Ed esse sono rappresentative, sì, ma di un mondo che non esiste più. Il sistema italiano odierno si fonda su categorie politiche attuali? La risposta è: no.

Torniamo alla nostra parola iniziale: “regime”. Se Di Pietro utilizza un giorno sì e l’altro pure la parola “regime” per definire il Governo, ottiene un impatto opposto a quello voluto.
“Regime” evoca una sola cosa: il Fascismo. Ed è evidente che nelle condizioni attuali non siamo sotto il Fascismo. È evidente che non siamo sotto una dittatura, se io stesso posso esprimere liberamente il mio pensiero.
Qui sta l’inghippo: non siamo certo sotto un “regime”. Almeno lessicalmente. Regime è una parola anacronistica, che rappresenta un determinato periodo storico che fortunatamente è finito, pur tra i rimpianti dei nostalgici, e che si spera non tornerà mai più. No, non siamo sotto regime perché regime indica quella dittatura mussoliniana.
La democrazia, quindi, non è a rischio? Anche questa è una formula piuttosto abusata e discretamente svuotata, secondo quel meccanismo su cui si è discettato poco fa. Ma la formula può ancora rendere. Dunque, è a rischio?
Non vivere “sotto regime” non basta perché una democrazia sia pienamente libera. Che il Governo attuale sia autoritario, è un dato di fatto: solo che non si usa più la parola “autoritario”, che ha una connotazione tanto negativa quanto veritiera. Oggi il Governo viene definito “decisionista”: questo permette di connotare un’azione molto discutibile in modo positivo, così da creare consenso attraverso il consenso.

La forza delle parole non è da sottovalutare. Durante il Fascismo furono abolite le parole straniere in nome di quella stessa italianità che attualmente viene ribadita quando si difendono interessi intrecciati stile Alitalia.
Oggi, con le parole si gioca in modo più subdolo, più fintamente blando e, per questo, più pericoloso. Chiediamoci: perché una legge in materia di testamento biologico viene definita legge sul “fine vita” e non legge sulla “morte”?
Sono differenze appena osservabili, appena rilevabili, ma che nell’era della comunicazione come quella che stiamo vivendo, possono davvero segnare la differenza tra la libertà e la non libertà. La differenza tra un “regime” e un “regimismo”.

Le persone vengono ubriacate da questo casino di significati e significanti: spesso non hanno strumenti intellettuali per capire, per analizzare, per farsi un’idea ed infine per scegliere, soprattutto attraverso il voto ma non solo.
E questo è il dato di fatto, o uno dei dati di fatto: perché in questo deserto semantico dove ognuno può dire quello che vuole e il suo contrario, dove ognuno può smentirsi nell’arco di un giorno o due, dove ognuno può saltellare da una parte politica all’altra sventolando bandiere, alla fine nessuno ci capisce più nulla e si finisce per sostenere la persona di cui ci fidiamo di più. Non per cosa dice, ma per come lo dice, e per l’immagine che riesce a costruirsi. E si sa chi ispira più fiducia: chi è forte. O almeno, chi dà quest’immagine di sé: chi riesce a passare da autoritario. O come decisionista.

Ecco perché non siamo sotto un “regime”, ecco perché non viviamo un Fascismo: perché le distanze e le contrapposizioni ideologiche non esistono, ognuno si proclama democratico, riformista, cattolico, laico, rivoluzionario, socialista, conservatore, liberale e così via. Ognuno dà all’altro del dittatore. Ognuno si sottrae dal parlare di contenuti: la semantica in cantina, regna il lessico. Le parole non sono più simboli, ma pentole vuote su cui battere coi mestoli per alzare un baccano che rende incomprensibile qualsiasi cosa, che confonde.
Siamo o non siamo sotto regime?
No. Non c’è bisogno di regimi, cioè di dittature vecchia maniera.
La democrazia è a rischio?
No. Ma solo perché la democrazia non esiste, perché le scelte fatte dal demos sono scelte libere solo nella forma, non nel processo di formazione, che si basa sul clangore metallico delle parole usate come pentole vuote.