giovedì 26 febbraio 2009

Se in pentola bolle il nulla


Siamo o non siamo, in Italia, sotto un regime? Da più parti, da più anni, si levano voci e accuse, manifesti e manifestazioni. E se oggi Di Pietro addita l’attuale Governo Berlusconi, come non ricordare la piazza sventolante bandiere di Forza Italia, Lega, AN e UDC di fronte a un palco su cui campeggiava a caratteri cubitali: “Contro il regime”.

Come spesso accade, com’è sempre accaduto e come continua ad accadere, le parole, quando vengono usate come simboli, o slogan evocativi, perdono il loro significato, si attenuano, si svuotano. Regime riporta alla mente quel signore in camicia nera e dalla zucca pelata, quei venti anni di omicidi e dittatura che, ancora, qualcuno si ostina a difendere con banalità come “furono fatte strade, furono fatti ponti, fu fatto il Concordato”.

L’uso smodato del termine “regime” lo ha reso docile, inoffensivo: se tutto è regime, allora niente è regime. E non vale più neanche la pena di andare a controllare se le accuse siano fondate o meno: “regime” non bolla più il destinatario dell’aggettivo, ma il mittente, che per l’uso stesso della parola diviene automaticamente populista, illiberale, illogico.
Spesso si sente dire che la politica viaggia quattro o cinque passi indietro rispetto alla società e al mondo reale, insomma, alle persone che essa, la politica, dovrebbe essere chiamata a rappresentare. Riflessione vera, ma senza sbocchi: chiedere alla classe politica, soprattutto quella attuale, di anticipare e indirizzare, oltre che rappresentare, le volontà e le voluttuosità popolari, sarebbe davvero troppo.

C’è un altro aspetto che colpisce l’attenzione e fa riflettere, e che si ricollega direttamente a quello che si è analizzato in precedenza.
La politica, o meglio i politici, fanno questo uso indiscriminato, spesso scellerato, di parole. Parole ridondanti, spesso assordanti, dal significato etimologico catastrofico. Parole che vengono buttate in mezzo un po’ per confondere le idee, un po’ perché si è in quella che viene definita “campagna elettorale permanente” e quindi i toni devono restare alti all’infinito. Parole che quindi diventano contenitori lessicali senza contenuto, soprattutto quando sono urlate ora da un palco, ora da un seggio, oppure da uno schermo. Parole vecchie. Non più rappresentative.

Ma è il caso di fare un ulteriore salto di qualità, perché questo è il punto vero, quello che può rispondere alla domanda con cui si è aperta questa riflessione. Siamo o non siamo, in Italia, sotto un regime? Forse non sono solo le parole ad essere vecchie. Ed esse sono rappresentative, sì, ma di un mondo che non esiste più. Il sistema italiano odierno si fonda su categorie politiche attuali? La risposta è: no.

Torniamo alla nostra parola iniziale: “regime”. Se Di Pietro utilizza un giorno sì e l’altro pure la parola “regime” per definire il Governo, ottiene un impatto opposto a quello voluto.
“Regime” evoca una sola cosa: il Fascismo. Ed è evidente che nelle condizioni attuali non siamo sotto il Fascismo. È evidente che non siamo sotto una dittatura, se io stesso posso esprimere liberamente il mio pensiero.
Qui sta l’inghippo: non siamo certo sotto un “regime”. Almeno lessicalmente. Regime è una parola anacronistica, che rappresenta un determinato periodo storico che fortunatamente è finito, pur tra i rimpianti dei nostalgici, e che si spera non tornerà mai più. No, non siamo sotto regime perché regime indica quella dittatura mussoliniana.
La democrazia, quindi, non è a rischio? Anche questa è una formula piuttosto abusata e discretamente svuotata, secondo quel meccanismo su cui si è discettato poco fa. Ma la formula può ancora rendere. Dunque, è a rischio?
Non vivere “sotto regime” non basta perché una democrazia sia pienamente libera. Che il Governo attuale sia autoritario, è un dato di fatto: solo che non si usa più la parola “autoritario”, che ha una connotazione tanto negativa quanto veritiera. Oggi il Governo viene definito “decisionista”: questo permette di connotare un’azione molto discutibile in modo positivo, così da creare consenso attraverso il consenso.

La forza delle parole non è da sottovalutare. Durante il Fascismo furono abolite le parole straniere in nome di quella stessa italianità che attualmente viene ribadita quando si difendono interessi intrecciati stile Alitalia.
Oggi, con le parole si gioca in modo più subdolo, più fintamente blando e, per questo, più pericoloso. Chiediamoci: perché una legge in materia di testamento biologico viene definita legge sul “fine vita” e non legge sulla “morte”?
Sono differenze appena osservabili, appena rilevabili, ma che nell’era della comunicazione come quella che stiamo vivendo, possono davvero segnare la differenza tra la libertà e la non libertà. La differenza tra un “regime” e un “regimismo”.

Le persone vengono ubriacate da questo casino di significati e significanti: spesso non hanno strumenti intellettuali per capire, per analizzare, per farsi un’idea ed infine per scegliere, soprattutto attraverso il voto ma non solo.
E questo è il dato di fatto, o uno dei dati di fatto: perché in questo deserto semantico dove ognuno può dire quello che vuole e il suo contrario, dove ognuno può smentirsi nell’arco di un giorno o due, dove ognuno può saltellare da una parte politica all’altra sventolando bandiere, alla fine nessuno ci capisce più nulla e si finisce per sostenere la persona di cui ci fidiamo di più. Non per cosa dice, ma per come lo dice, e per l’immagine che riesce a costruirsi. E si sa chi ispira più fiducia: chi è forte. O almeno, chi dà quest’immagine di sé: chi riesce a passare da autoritario. O come decisionista.

Ecco perché non siamo sotto un “regime”, ecco perché non viviamo un Fascismo: perché le distanze e le contrapposizioni ideologiche non esistono, ognuno si proclama democratico, riformista, cattolico, laico, rivoluzionario, socialista, conservatore, liberale e così via. Ognuno dà all’altro del dittatore. Ognuno si sottrae dal parlare di contenuti: la semantica in cantina, regna il lessico. Le parole non sono più simboli, ma pentole vuote su cui battere coi mestoli per alzare un baccano che rende incomprensibile qualsiasi cosa, che confonde.
Siamo o non siamo sotto regime?
No. Non c’è bisogno di regimi, cioè di dittature vecchia maniera.
La democrazia è a rischio?
No. Ma solo perché la democrazia non esiste, perché le scelte fatte dal demos sono scelte libere solo nella forma, non nel processo di formazione, che si basa sul clangore metallico delle parole usate come pentole vuote.