"Sai qual è il problema" mi disse, cercando di trattenere le lacrime ma non riuscendo a capire se quelle gocce fossero mie o fossero sue, tanto eravamo vicini.
"In questo momento, il singolare non mi pare...".
"Lo so che ne abbiamo tanti. Ma quello più grosso, dico".
"No. Dimmelo".
Cercavo di mantenere un tono dignitoso della voce, mascherando eventuali smagliature con colpetti di tosse imbarazzati.
"Il problema più grosso è che pensavamo di avere ragione".
"Già", rispondo. Ma non mi convince del tutto il suo discorso. Non foss'altro per il fatto che io, a dirla tutta, non ero poi così certo all'inizio. Di avere ragione, dico. Non ne ero per nulla sicuro. Mi sono fatto convincere, ecco. Questo è stato sempre, da sempre, un bel guaio per me. Soprattutto quando ti trovi chiuso in una stanza, indeciso, alla fine di tutto. Manca solo l'ultima parola, l'ultimo gesto, ma l'epilogo non credo ormai cambierà. Abbiamo perso, tutto qui. Quando si gioca, si vince, si perde, in certi casi si può pure pareggiare ma no, non in questo caso. In questo caso il pareggio non è previsto e per noi due dietro a quella porta chiusa non c'è più il mondo. Dovevamo saperlo. Anzi, lo dovevo sapere. Invece mi sono fatto convincere, e per un certo periodo ci ho creduto veramente.
"Forse" riprendo, "non tutto è deciso".
"Non tutto è deciso. Ma tutto è finito"."E pensare che ci eravamo andati così vicini".
Non posso fare a meno di pensare a quando siamo scesi in piazza. Stavamo strillando come aquile impazzite. Bruciavamo immagini come se servisse ad esorcizzare i fantasmi, i nostri. Quelli che ci assillano da sempre. Quelli che bruciamo perché non bruciamo noi stessi. Qualche volta.
"Avevamo sbagliato qualche calcolo".
"Già".
"E lui?".
"E lui resta lì".
"Lì dove?".
"Lì dov'è sempre stato. In televisione, al governo, sui giornali. Ovunque".
"E noi, invece?".
"In questo momento, il singolare non mi pare...".
"Lo so che ne abbiamo tanti. Ma quello più grosso, dico".
"No. Dimmelo".
Cercavo di mantenere un tono dignitoso della voce, mascherando eventuali smagliature con colpetti di tosse imbarazzati.
"Il problema più grosso è che pensavamo di avere ragione".
"Già", rispondo. Ma non mi convince del tutto il suo discorso. Non foss'altro per il fatto che io, a dirla tutta, non ero poi così certo all'inizio. Di avere ragione, dico. Non ne ero per nulla sicuro. Mi sono fatto convincere, ecco. Questo è stato sempre, da sempre, un bel guaio per me. Soprattutto quando ti trovi chiuso in una stanza, indeciso, alla fine di tutto. Manca solo l'ultima parola, l'ultimo gesto, ma l'epilogo non credo ormai cambierà. Abbiamo perso, tutto qui. Quando si gioca, si vince, si perde, in certi casi si può pure pareggiare ma no, non in questo caso. In questo caso il pareggio non è previsto e per noi due dietro a quella porta chiusa non c'è più il mondo. Dovevamo saperlo. Anzi, lo dovevo sapere. Invece mi sono fatto convincere, e per un certo periodo ci ho creduto veramente.
"Forse" riprendo, "non tutto è deciso".
"Non tutto è deciso. Ma tutto è finito"."E pensare che ci eravamo andati così vicini".
Non posso fare a meno di pensare a quando siamo scesi in piazza. Stavamo strillando come aquile impazzite. Bruciavamo immagini come se servisse ad esorcizzare i fantasmi, i nostri. Quelli che ci assillano da sempre. Quelli che bruciamo perché non bruciamo noi stessi. Qualche volta.
"Avevamo sbagliato qualche calcolo".
"Già".
"E lui?".
"E lui resta lì".
"Lì dove?".
"Lì dov'è sempre stato. In televisione, al governo, sui giornali. Ovunque".
"E noi, invece?".
"Anche noi restiamo dove siamo sempre stati".
Noi siamo nel nulla, cerchiamo il nulla, vaghiamo, senza vento, senza angoli, senza occhi.
E lui lì. In televisione, al governo, sui giornali. Dovunque.
Noi siamo nel nulla, cerchiamo il nulla, vaghiamo, senza vento, senza angoli, senza occhi.
E lui lì. In televisione, al governo, sui giornali. Dovunque.