Il mondo fa schifo.
È brutto, ingiusto, sporco. Il mondo è inquinato, corrotto. Insomma, niente di nuovo sotto il sole. L’unica cosa che cambia sono le modalità dello schifo. La crisi perpetua che muta attese, sogni e bisogni fin dall’alba dei tempi e che passa dalla caccia al mammut ai mutui subprime, dalle miniere di carbone ai contratti precari. Crisi, crisi, crisi. Crisi dell’industria, crisi dell’economia, crisi della finanza. La crisi dell’identità dell’uomo di mezzo, che non sa se è ricco o povero. Perché se sei ricco, sei ricco. Il problema non ti tange, sebbene la tua ricchezza si fondi sulla povertà di altri. Allo stesso modo, se sei povero, sei povero. Come dire: almeno lo sai. I tuoi problemi sono definiti e ti puoi armare per combattere. Anche se le tue armi sono spuntate.
Pensare che ci sono bambini che muoiono di fame non è sempre angosciante. Pensare ai bambini senza riso o pasta, che vivono nell’immondizia, per cui la speranza di vita non oltrepassa il tempo che da noi equivale a una partita di Champions League, tutto questo sa essere profondamente consolatorio. D’altronde, ancora non si muore di fame, d’altronde c’è ancora una mensa per poveri, d’altronde c’è la carità di qualcuno per qualcuno.
Ora, ci dicono ogni giorno, ce lo ripetono, di essere ottimisti. Di spendere e spandere. Ottimismo, sempre e comunque.
Ma la domanda è: perché?
Su quali basi dobbiamo guardare con fiducia al domani, alla prossima ora, se insieme alla placenta e al cordone ombelicale è stata lavata via dalla pelle anche la minima ombra di speranza.
Siate ottimisti, dicono. E lo dice chi sotto il culo ha così tante poltrone da scordarsi gli zeri del proprio conto in qualche stato estero di cui solo lui e pochi altri conoscono l’esistenza sulle mappe del vasto mare. Come moderni isolotti del tesoro di corsara memoria.
Non possiamo essere ottimisti perché noi non abbiamo speranza. Non abbiamo speranza perché non abbiamo potere, noi non abbiamo modo di scegliere il nostro futuro, e nemmeno il nostro presente. La ricchezza dei profeti dell’ottimismo si basa sulle nostre casse integrazione.
Ottimismo è una parola fuoriluogo, quando la stessa cassa integrazione sembra essere un privilegio per pochi. Ai più viene detto: grazie, il contratto non si rinnova. “Ottimismo” e “Arrangiati”, sotto questo profilo, non sono conciliabili.
Il nostro ottimismo non ha ragione di esistere. Il nostro ottimismo si veste degli squallidi gratta e vinci presi in autogrill, delle preghiere davanti a una schedina del superenalotto, della partecipazione a un reality, di una qualsiasi botta di culo che possa rendere il grigio meno grigio e che possa farti saltare lo steccato per pascolare liberamente sui verdi prati della ricchezza.
Arranchiamo, sbuffiamo. Siamo gli eroi del contratto a progetto. Quelli che non avranno pensione. Quelli che pagano per gli errori degli altri. Non abbiamo più neanche i sogni, siamo troppo impegnati a rispondere a comporre quanti più numeri possibile nei call center, a fare lavori di responsabilità per due soldi, a cercare di capire per quale motivo abbiamo sudato, pianto, sofferto, cazzeggiato, per avere un foglio con su scritto: laurea. Non abbiamo neanche i soldi per comprarci i sogni degli altri.
Siate ottimisti. Irragionevolmente ottimisti, sfacciatamente ottimisti. Non avete un lavoro, ma il lavoro non è tutto nella vita. La salute, quella sì che è importante. Che poi, se non avete un lavoro non vi infortunerete e non morirete.
Pensare che ci sono bambini che muoiono di fame non è sempre angosciante. Pensare ai bambini senza riso o pasta, che vivono nell’immondizia, per cui la speranza di vita non oltrepassa il tempo che da noi equivale a una partita di Champions League, tutto questo sa essere profondamente consolatorio. D’altronde, ancora non si muore di fame, d’altronde c’è ancora una mensa per poveri, d’altronde c’è la carità di qualcuno per qualcuno.
Ora, ci dicono ogni giorno, ce lo ripetono, di essere ottimisti. Di spendere e spandere. Ottimismo, sempre e comunque.
Ma la domanda è: perché?
Su quali basi dobbiamo guardare con fiducia al domani, alla prossima ora, se insieme alla placenta e al cordone ombelicale è stata lavata via dalla pelle anche la minima ombra di speranza.
Siate ottimisti, dicono. E lo dice chi sotto il culo ha così tante poltrone da scordarsi gli zeri del proprio conto in qualche stato estero di cui solo lui e pochi altri conoscono l’esistenza sulle mappe del vasto mare. Come moderni isolotti del tesoro di corsara memoria.
Non possiamo essere ottimisti perché noi non abbiamo speranza. Non abbiamo speranza perché non abbiamo potere, noi non abbiamo modo di scegliere il nostro futuro, e nemmeno il nostro presente. La ricchezza dei profeti dell’ottimismo si basa sulle nostre casse integrazione.
Ottimismo è una parola fuoriluogo, quando la stessa cassa integrazione sembra essere un privilegio per pochi. Ai più viene detto: grazie, il contratto non si rinnova. “Ottimismo” e “Arrangiati”, sotto questo profilo, non sono conciliabili.
Il nostro ottimismo non ha ragione di esistere. Il nostro ottimismo si veste degli squallidi gratta e vinci presi in autogrill, delle preghiere davanti a una schedina del superenalotto, della partecipazione a un reality, di una qualsiasi botta di culo che possa rendere il grigio meno grigio e che possa farti saltare lo steccato per pascolare liberamente sui verdi prati della ricchezza.
Arranchiamo, sbuffiamo. Siamo gli eroi del contratto a progetto. Quelli che non avranno pensione. Quelli che pagano per gli errori degli altri. Non abbiamo più neanche i sogni, siamo troppo impegnati a rispondere a comporre quanti più numeri possibile nei call center, a fare lavori di responsabilità per due soldi, a cercare di capire per quale motivo abbiamo sudato, pianto, sofferto, cazzeggiato, per avere un foglio con su scritto: laurea. Non abbiamo neanche i soldi per comprarci i sogni degli altri.
Siate ottimisti. Irragionevolmente ottimisti, sfacciatamente ottimisti. Non avete un lavoro, ma il lavoro non è tutto nella vita. La salute, quella sì che è importante. Che poi, se non avete un lavoro non vi infortunerete e non morirete.
Questa sì che è la vera panacea contro le così dette “morti bianche”: la disoccupazione. Ma poi non venite a dirci che non siamo ottimisti, cazzo.