venerdì 26 settembre 2008

Quando muore un partigiano

L’addio a “Foco”
Quando muore un partigiano
È scomparso Enio Sardelli. Un “simbolo”, un partigiano, un uomo

Di Gianni Somigli

Domenici, Cruccolini, Nencini, il PD, Sinistra Democratica, Rifondazione, l’Anpi, i Centri sociali, numerosi cittadini. Tante le esternazioni di dolore per la perdita di Enio Sardelli, il partigiano “Foco”, scomparso dopo un lungo periodo difficile il 28 aprile scorso all’età di 82 anni.
Mentre Alemanno, neo-sindaco-ex-fascista di Roma, fa visita alle Fosse Ardeatine ed esalta i valori della Resistenza come patrimonio comune degli italiani (se in modo sincero o strumentale, chi lo sa?), potrebbe stupire il silenzio della desta fiorentina di fronte alla perdita di uno dei simboli più importanti della Lotta per la Liberazione di Firenze. Potrebbe. Dovrebbe.
Noi di Informa Firenze intendiamo lasciare ad altri le astratte dissertazioni politiche intorno a valori e principi, così come le sterili disquisizioni sulla presunta “Riconciliazione”, che ha però sempre più il solo sapore della storia riscritta e della negazione. In tempi in cui in Italia si vuol far sparire perfino il darwinismo dai libri di scuola, si fatica a restare lucidi e calmi. Come se la “Riconciliazione” non si realizzasse ogni giorno quando ci esprimiamo liberamente. Quando leggiamo i giornali. Quando votiamo.
Quando abbiamo cercato “Foco” per l’intervista poi pubblicata sull’Informa Firenze di aprile, siamo partiti con l’idea sbagliata: quella di far domande e chiedere spunti a un “simbolo”. Simbolo di libertà, giustizia, fratellanza. Di eroicità. Uno scrigno di ricordi da cui attingere frasi importanti per impreziosire un articolo che dimostrasse un’idea. Certo, per rinfrescare la memoria di qualcuno. O per chiarire le idee ad altri.
Siamo partiti con un’idea non del tutto corretta, e ce ne siamo resi conto durante le diverse ore trascorse al telefono con Enio.
La persona con cui stavamo parlando, che ci stava raccontando la sua vita, che ci stava svelando episodi tristi oppure aneddoti semicomici del tempo delle notti d’inverno trascorse a fare la sentinella nei boschi, non era un simbolo. Non solo, almeno. Quello era un uomo. Anzi: un uomo che da ragazzo fece una scelta.
In un paese di “terzisti” e “ignavi”, per Dante disprezzati finanche dall’Inferno, già fare una scelta è cosa inconsueta. Un atto di coraggio eroico. Un atto di fede.
Quello che pare sempre meno chiaro ma che dovrebbe essere lampante è altro. E cioè che non tutte le scelte sono uguali. Ci sono scelte giuste e ci sono scelte sbagliate. Chi a quel tempo fece la scelta giusta, non può, non deve essere messo alla pari di chi al contrario optò per la scelta sbagliata. Categorie sempre pericolose, il “giusto” e lo “sbagliato”; ma, almeno in questo caso, è la Storia a definirne i limiti corretti.
Il racconto di Enio si snodò lungo tutto la sua vita. Iniziando a scrivere, poi, ci siamo resi conto che racchiudere tutto quel tesoro in due sole pagine era un’impresa molto complicata. Abbiamo così cercato di focalizzare l’attenzione, così, attraverso quella conversazione, su alcuni aspetti specifici.
Ci sono pseudo-intellettuali per autocertificazione che tornano periodicamente a insistere sulla necessità di “smitizzare” la Lotta Partigiana. Ovvio: a fini politici, e in modo becero, strumentale, ignorante.
Parlando con Enio, però, anche in noi è avvenuto un qualcosa di molto simile. Solo che, paradossalmente, la “nostra” smitizzazione ha reso ancora più forte il mito.
Quando le persone sono elevate a “mito”, la retorica porta a tracciare profili non sempre veritieri. Quantomeno, sopra le righe. Si annacqua un aspetto che, al contrario, è primario. Anzi, forse il più importante di tutti: l’aspetto umano.
Le parole di Foco ci hanno fatto ben capire che quella guerra fu una guerra tra il bene e il male. A combatterla sono stati uomini. Ragazzi. Donne. Esseri umani devastati dalla paura, dalla fame, dal coraggio, dalla speranza, che hanno scelto il “bene”, proprio e dell’umanità, e che si sono trovati a combattere contro un “male”. Un male composto anch’esso da esseri, sulla cui umanità è più che lecito porsi qualche dubbio.
Enio ci ha regalato il racconto di questa umanità. Di chi ce l’aveva e di chi l’aveva persa. Ci ha dipinto la sua infanzia punteggiata di domande alla mamma: perché i fascisti fanno male alla gente? Perché entrano nelle case e portano via i nostri amici? Perché?
Le domande di Enio da bambino non hanno mai trovato risposta. Presto, però, ne sono nate altre: Enio, insieme a tanti altri, ha replicato mettendo in gioco la propria vita per conquistarsi una libertà mai conosciuta e anche per questo così anelata.
Da quel momento e fino al 28 aprile scorso, Enio è stato il partigiano “Foco”. Un uomo che, con la sua vita, ci ricorda che le idee e gli ideali, senza uomini e donne pronti a combattere per essi, sono parole vuote come un mondo senza fiori e stelle. Questo era, ed è, essere vivo sotto una dittatura fascista: vivere in un mondo senza fiori e senza stelle. Che pure c’erano, erano lì, ed erano bellissime ma tu non avevi la libertà di riempirtene gli occhi e il cuore e il pensiero.
Vogliamo “smitizzare” i partigiani come Enio? Facciamolo, e ci accorgeremo che la memoria ne esce ancor più rafforzata. La leggenda, amplificata. Lasciamo cadere le vestigia del mito: “umanizzando” la storia si rendono più certi i confini di un territorio minato, dove negli ultimi anni chiunque si sente libero di dire tutto e il contrario di tutto, spingendo verso la radicalizzazione e la giustificazione per poi ricorrere a ipocrite prese di distanza quando qualche fesso ci casca davvero.
Perdere una persona come Enio Sardelli non solo ci addolora profondamente a livello umano; perdere uomini e donne come Enio fa nascere in noi una buona dose di preoccupazione. Quando anche gli ultimi testimoni di quell’epoca se ne saranno andati, cosa succederà in questa Italia così atta alle derive, così felice di voltare non pagina ma faccia, così predisposta a rinnegare se stessa e quello che il giorno prima era vero, il giorno dopo non lo è più?
La memoria di Enio Sardelli e di tutti coloro che parteciparono a quei giorni di sofferenza e speranza vive e continuerà a vivere nella Costituzione italiana, come lo stesso Foco tuonò pochi giorni prima di morire.
In noi, però, rimane la tristezza per la perdita di un amico che, non troppi anni fa, mise in gioco la sua giovane vita per regalare a noi, italiani di oggi, un mondo migliore. Fatto di stelle e fiori. Cerchiamo di meritarcelo.

Resistere, resistere, resistere!

ANPI Toscana
Tre giorni per festeggiare la Costituzione. E difenderla
Il 10, 11 e 12 ottobre prossimi alla SASCHALL con incontri, musica, dibattiti

Di Gianni Somigli

Vi avvertiamo: quello che vi apprestate a leggere è un articolo di parte. Di più: l’articolo che state per leggere non solo sta da una parte ma, accusateci pure di presunzione, sta dalla parte giusta.
Perché la parte giusta non è quella dettata dalla propria coscienza. Non sempre. Ci sono alcune volte in cui il giusto e lo sbagliato sono oggettivi. Netti. A volte, tra il bene e il male non ci sono sfumature, ed una scelta sbagliata resta quello che era e continua ad essere: una scelta sbagliata. Nonostante il giustificazionismo che parla di scelte fatte in buona fede, nonostante il revisionismo che vuol rileggere la storia e darle nuovi significati.

Probabilmente, i soldati delle SS erano in buona fede quando bruciavano ebrei, zingari, menomati, dissidenti.
Probabilmente, erano in buonafede i razzisti sudafricani per cui l’apartheid era cosa naturale, buona e giusta.
Probabilmente erano, e ancora sono, in buonafede i soldati comunisti cinesi in Tibet.
E probabilmente, erano in buonafede i fascisti che terrorizzarono, uccisero, violentarono prima, durante e dopo la guerra.
Buonafede che, come sarà facile intuire, non assolve certo da azioni che hanno segnato il corso della Storia.

Quella stessa buonafede che sicuramente albergava nel cuore e nelle azioni di Martin Luther King. Nelle battaglie di Nelson Mandela. Nella non violenza di Mahatma Gandhi, e di mille altri che lottarono e lottano per la parte giusta.
Negli USA, in India, in Sudafrica, nessuno si sognerebbe di mettere in discussione quale sia la parte giusta o la parte sbagliata: è la Storia che lo afferma. Nessuno si sognerebbe di dire che l’apartheid ha prodotto “anche cose buone”. O che, a parte qualche piccolo quiproquo, il razzismo in fondo non era (o è?) così male. In Germania nessuno avrebbe il coraggio di dire che “comunque” il nazismo creò posti di lavoro e rilanciò l’economia.
In Italia, invece, non solo ci si sogna di dirlo: si dice. E non sono solo discorsi di qualche nostalgico, di qualche xenofobo, no: sono libri che vendono milioni di copie, sono discorsi tenuti in occasioni ufficiali da Ministri della Repubblica, che hanno giurato sulla Costituzione.
Sono passati quindici anni da quando Indro Montanelli, dalle colonne della sua “Voce”, consigliava ai politici di rileggersela, quella Costituzione su cui si basa l’ordinamento democratico del nostro paese. Fu accusato di essere comunista, secondo la classica logica italiana del “o di qua o di là”. Caro Indro, le cose sono cambiate in quindici anni. In peggio. Fortunatamente, te ne sei andato prima di assistere a questo sfacelo. Avevi ragione tu: ma quali “magnifiche sorti, e progressive”.
Perché non si tratta di un “giochino” del tipo: qual è stato il male assoluto e quale il male relativo, cosa è stato il bene e cosa il quasi bene. Si sentono discussioni ridicole da varie parti, fatte da persone o personaggi di fronte ai quali viene da chiedersi in che mani siamo finiti, ma che soprattutto non sembrano rendersi che le proprie parole provocano delle reazioni. Soprattutto su chi è più malleabile, influenzabile, manipolabile; su chi forma le proprie opinioni solo ed esclusivamente su tali parole.
Così, mentre a Castello i “camerati” di “Quota 33” aprono un centro culturale (o presunto tale) dove discorrere della propria differenza dalla massa, esultando per “aver aperto una breccia nella rossa Firenze”, in nome ma soprattutto in difesa della Costituzione della Repubblica Italiana, l’ANPI TOSCANA organizza la prima festa regionale dell’ANPI: il 10, 11 e 12 ottobre prossimi alla SASCHALL di Firenze, una tre giorni di dibattiti, incontri, musica, per festeggiare i sessanta anni della nostra Carta fondamentale. E, viene da dire “purtroppo”, ancora per difenderne i valori, i principi, il messaggio.
«Per la Toscana, questa festa è una grande novità e un impegno per il futuro – dice Silvano Sarti, presidente dell’ANPI Provinciale Firenze -. La sfida del rinnovamento è aprirsi ai giovani, incontrarli, lavorare insieme. È questa la condizione principale affinché l’ANPI un’associazione di massa, in grado di rispondere agli attacchi di chi prova a mettere sullo stesso piano partigiani e repubblichini. Abbiamo il compito di riaffermare i valori della lotta partigiana, con sempre più forza e convinzione, per farli diventare, ogni giorno di più, di tutti gli antifascisti».«La Resistenza è stata una lotta giusta e dalla parte giusta. I valori che abbiamo difeso e costruito – prosegue Sarti - erano i valori fondamentali della nostra civiltà sovvertiti dalla dittatura fascista. Il nostro ruolo, oggi, è quello di consegnare alle nuove generazioni i valori della Resistenza, affinché non si annullino, ma si rafforzino. E visto l’impegno dei giovani dimostrato per la realizzazione di questa festa regionale dell’ANPI, si può ben sperare».

Fannulloni eccellenti...

Pubblica Amministrazione
Eccellenze e fannulloni, le grandi battaglie del “mini-Ministro”
Firenze cinque volte nella lista dei “buoni” di Renato Brunetta. E i cattivi...

Di Gianni Somigli

Gestione della qualità all’ITI-IPIA Leonardo Da Vinci; progetto del Comune “Innovazione e modernizzazione”; progetto “Web DPC: un sistema di supply chain farmaceutico” dell’ASL 10 Firenze, a cui appartiene anche il progetto “Modernizzazione e innovazione della prevenzione veterinaria” e infine il portale web “LineaComune.it”.
Il nome di Firenze risuona ben cinque volte tra le prime duecento storie di eccellenza della Pubblica Amministrazione. Per cinque volte Firenze risponde “presente” all’appello fatto dal ministro Brunetta. Quello fatto dal registro dei buoni, non dalla lista nera dei fannulloni, di cui forse avrete sentito parlare nei mesi scorsi, nonostante le reti televisive abbiano quasi oscurato la notizia...
Lasciamo la satira a chi (secondo politici, giudici e Chiesa) la “può” (non necessariamente “sa”) fare, e parliamo di quello che il ministro per la Pubblica Amministrazione e Innovazione, Renato Brunetta, ha fatto negli ultimi mesi.
Già in quest’ultima frase c’è un forte elemento di novità, di quelli che senz’altro fanno salire le quotazioni di gradimento verso il “mini-Ministro”: il verbo “ha fatto”. Un verbo a cui gli italiani sono stati poco abituati, dicono in tanti analisti frequentatori dei salotti televisivi, e la differenza sta tutta lì. Un Governo che fa, un Governo che agisce, un Governo decisionista come il suo Capo: così si spiega l’apprezzamento, o presunto tale, verso l’Esecutivo.
Noi non frequentiamo neanche gli ingressi degli studi tv, figuriamoci i salotti. Ma troviamo semplicistico il ragionamento. Le conclusioni, scontate, ovvie, quantomeno affrettate. Un consenso creato per creare consenso.
È senz’altro vero che in uno strano Paese come il nostro, abituato alle paralisi istituzionali dovute alla litigiosità politica (intesa come “tra politici”, non con argomenti politici alla base), verbi come “agire” e “decidere” suonano nuovi e importanti. Sponsorizzati e venduti poi dall’Uomo del Fare, come solo il Presidente del Consiglio sa proporsi, ancora di più.
Ci ostentiamo a credere che agire sia importante, ma che rimanga una differenza essenziale, non da poco, tra “fare bene” e “fare male”. Dicono: lasciateci lavorare. A parte che tecnicamente non si avrebbero comunque strumenti per farli smettere, è giusto, ci chiediamo ingenuamente, fingere che questa sia la prima volta che “li lasciamo lavorare” e che sia quindi giusto fidarsi?
Ognuno darà le sue risposte, magari facendosi due conti in tasca prima di guardare Porta a Porta o un qualche telegiornale.
Un po’ per abitudine, un po’ per fiorentinità, siamo portati ad una certa diffidenza verso chi ci governa. Spesso, se non sempre.
Come porsi dunque verso il ministro Renato Brunetta e la sua battaglia contro i fannulloni ed a favore delle “pratiche di buon governo”?
Le voci a proposito sono tante: ci sono diverse persone che sostengono che, in fondo, non è cambiato proprio nulla. Ma c’è chi dice che la verità è un’altra. Che è cambiato tutto, che i “fannulloni” adesso lavorano, col mini-Ministro che sventola percentuali da capogiro sugli effetti delle sue circolari, quasi miracolosi nel debellare le malattie. «Sono il primo ministro con poteri taumaturgici» dichiarò il baldanzoso Brunetta in tv.
Ed è qui che semmai arriva l’inghippo.
Il ministro Brunetta ha fino ad ora saputo dove andare a colpire. Indubbiamente, ha saputo affrontare uno dei vulnus più vituperati dagli italiani: l’inefficienza delle Amministrazioni Pubbliche, un vulnus divenuto quasi luogo comune. Un farraginoso, vecchio gigante con cui tutti ci siamo scontrati e da cui, pressoché sempre, ne abbiamo buscate.
Non siamo in grado di sostenere che i provvedimenti brunettiani siano realmente taumaturgici, né che essi siano al contrario solo “spot” populisti i cui effetti non modificheranno il ventre molle dell’apparato statale.
Quello che è certo è che il professore Brunetta ha saputo impersonare un ruolo accattivante, svecchiando l’immagine di un sistema agonizzante, anche attraverso concorsi, vignette, battute. Un linguaggio popolare, un “antiburocratichese” per parlare di burocrazia. E nonostante non si possa dire (non ce ne voglia il mini-Ministro) che sia un bell’uomo, è indiscutibile che Brunetta in televisione ci sappia stare. Che sappia usare il mezzo, strizzare l’occhio al pubblico, accreditandosi come uno dalla sua parte che lotta per cambiare le cose.
Se sia un affabulatore o un modernizzatore reale, è troppo presto per dirlo. In questo caso crediamo sia giusto “lasciarlo lavorare”, lasciarlo “fare”, per poi giudicare (col voto) se ciò che è stato fatto, sia stato fatto bene o sia stato fatto male.
Siamo ormai un paese di disillusi: chissà in quale dei due casi rimarremmo più sorpresi.