Di ritorno dall’Annozero televisivo di Santoro, dove aveva inveito contro le occupazioni degli studenti come metodo di protesta, Giovanni Donzelli, consigliere comunale An-Pdl, ha occupato la Sala consiliare del Comune di Firenze per protesta. La coerenza è degli sciocchi, diceva Wilde. Petrarca sosteneva che il saggio muta consiglio, ma lo stolto resta della sua opinione. Donzelli non è dunque né sciocco né stolto. È più un centometrista.
venerdì 19 dicembre 2008
DoubleFace
Di ritorno dall’Annozero televisivo di Santoro, dove aveva inveito contro le occupazioni degli studenti come metodo di protesta, Giovanni Donzelli, consigliere comunale An-Pdl, ha occupato la Sala consiliare del Comune di Firenze per protesta. La coerenza è degli sciocchi, diceva Wilde. Petrarca sosteneva che il saggio muta consiglio, ma lo stolto resta della sua opinione. Donzelli non è dunque né sciocco né stolto. È più un centometrista.
martedì 9 dicembre 2008
What's goin' on?
Il mondo fa schifo.
È brutto, ingiusto, sporco. Il mondo è inquinato, corrotto. Insomma, niente di nuovo sotto il sole. L’unica cosa che cambia sono le modalità dello schifo. La crisi perpetua che muta attese, sogni e bisogni fin dall’alba dei tempi e che passa dalla caccia al mammut ai mutui subprime, dalle miniere di carbone ai contratti precari. Crisi, crisi, crisi. Crisi dell’industria, crisi dell’economia, crisi della finanza. La crisi dell’identità dell’uomo di mezzo, che non sa se è ricco o povero. Perché se sei ricco, sei ricco. Il problema non ti tange, sebbene la tua ricchezza si fondi sulla povertà di altri. Allo stesso modo, se sei povero, sei povero. Come dire: almeno lo sai. I tuoi problemi sono definiti e ti puoi armare per combattere. Anche se le tue armi sono spuntate.
Pensare che ci sono bambini che muoiono di fame non è sempre angosciante. Pensare ai bambini senza riso o pasta, che vivono nell’immondizia, per cui la speranza di vita non oltrepassa il tempo che da noi equivale a una partita di Champions League, tutto questo sa essere profondamente consolatorio. D’altronde, ancora non si muore di fame, d’altronde c’è ancora una mensa per poveri, d’altronde c’è la carità di qualcuno per qualcuno.
Ora, ci dicono ogni giorno, ce lo ripetono, di essere ottimisti. Di spendere e spandere. Ottimismo, sempre e comunque.
Ma la domanda è: perché?
Su quali basi dobbiamo guardare con fiducia al domani, alla prossima ora, se insieme alla placenta e al cordone ombelicale è stata lavata via dalla pelle anche la minima ombra di speranza.
Siate ottimisti, dicono. E lo dice chi sotto il culo ha così tante poltrone da scordarsi gli zeri del proprio conto in qualche stato estero di cui solo lui e pochi altri conoscono l’esistenza sulle mappe del vasto mare. Come moderni isolotti del tesoro di corsara memoria.
Non possiamo essere ottimisti perché noi non abbiamo speranza. Non abbiamo speranza perché non abbiamo potere, noi non abbiamo modo di scegliere il nostro futuro, e nemmeno il nostro presente. La ricchezza dei profeti dell’ottimismo si basa sulle nostre casse integrazione.
Ottimismo è una parola fuoriluogo, quando la stessa cassa integrazione sembra essere un privilegio per pochi. Ai più viene detto: grazie, il contratto non si rinnova. “Ottimismo” e “Arrangiati”, sotto questo profilo, non sono conciliabili.
Il nostro ottimismo non ha ragione di esistere. Il nostro ottimismo si veste degli squallidi gratta e vinci presi in autogrill, delle preghiere davanti a una schedina del superenalotto, della partecipazione a un reality, di una qualsiasi botta di culo che possa rendere il grigio meno grigio e che possa farti saltare lo steccato per pascolare liberamente sui verdi prati della ricchezza.
Arranchiamo, sbuffiamo. Siamo gli eroi del contratto a progetto. Quelli che non avranno pensione. Quelli che pagano per gli errori degli altri. Non abbiamo più neanche i sogni, siamo troppo impegnati a rispondere a comporre quanti più numeri possibile nei call center, a fare lavori di responsabilità per due soldi, a cercare di capire per quale motivo abbiamo sudato, pianto, sofferto, cazzeggiato, per avere un foglio con su scritto: laurea. Non abbiamo neanche i soldi per comprarci i sogni degli altri.
Siate ottimisti. Irragionevolmente ottimisti, sfacciatamente ottimisti. Non avete un lavoro, ma il lavoro non è tutto nella vita. La salute, quella sì che è importante. Che poi, se non avete un lavoro non vi infortunerete e non morirete.
Pensare che ci sono bambini che muoiono di fame non è sempre angosciante. Pensare ai bambini senza riso o pasta, che vivono nell’immondizia, per cui la speranza di vita non oltrepassa il tempo che da noi equivale a una partita di Champions League, tutto questo sa essere profondamente consolatorio. D’altronde, ancora non si muore di fame, d’altronde c’è ancora una mensa per poveri, d’altronde c’è la carità di qualcuno per qualcuno.
Ora, ci dicono ogni giorno, ce lo ripetono, di essere ottimisti. Di spendere e spandere. Ottimismo, sempre e comunque.
Ma la domanda è: perché?
Su quali basi dobbiamo guardare con fiducia al domani, alla prossima ora, se insieme alla placenta e al cordone ombelicale è stata lavata via dalla pelle anche la minima ombra di speranza.
Siate ottimisti, dicono. E lo dice chi sotto il culo ha così tante poltrone da scordarsi gli zeri del proprio conto in qualche stato estero di cui solo lui e pochi altri conoscono l’esistenza sulle mappe del vasto mare. Come moderni isolotti del tesoro di corsara memoria.
Non possiamo essere ottimisti perché noi non abbiamo speranza. Non abbiamo speranza perché non abbiamo potere, noi non abbiamo modo di scegliere il nostro futuro, e nemmeno il nostro presente. La ricchezza dei profeti dell’ottimismo si basa sulle nostre casse integrazione.
Ottimismo è una parola fuoriluogo, quando la stessa cassa integrazione sembra essere un privilegio per pochi. Ai più viene detto: grazie, il contratto non si rinnova. “Ottimismo” e “Arrangiati”, sotto questo profilo, non sono conciliabili.
Il nostro ottimismo non ha ragione di esistere. Il nostro ottimismo si veste degli squallidi gratta e vinci presi in autogrill, delle preghiere davanti a una schedina del superenalotto, della partecipazione a un reality, di una qualsiasi botta di culo che possa rendere il grigio meno grigio e che possa farti saltare lo steccato per pascolare liberamente sui verdi prati della ricchezza.
Arranchiamo, sbuffiamo. Siamo gli eroi del contratto a progetto. Quelli che non avranno pensione. Quelli che pagano per gli errori degli altri. Non abbiamo più neanche i sogni, siamo troppo impegnati a rispondere a comporre quanti più numeri possibile nei call center, a fare lavori di responsabilità per due soldi, a cercare di capire per quale motivo abbiamo sudato, pianto, sofferto, cazzeggiato, per avere un foglio con su scritto: laurea. Non abbiamo neanche i soldi per comprarci i sogni degli altri.
Siate ottimisti. Irragionevolmente ottimisti, sfacciatamente ottimisti. Non avete un lavoro, ma il lavoro non è tutto nella vita. La salute, quella sì che è importante. Che poi, se non avete un lavoro non vi infortunerete e non morirete.
Questa sì che è la vera panacea contro le così dette “morti bianche”: la disoccupazione. Ma poi non venite a dirci che non siamo ottimisti, cazzo.
venerdì 5 dicembre 2008
CASTAWAY
Casta. Caste. Lobby. Arti e mestieri. Sindacati. Partiti. Ordini professionali. La storia del nostro paese, fin dai suoi albori, si fonda su centri di potere. Legittimati nel corso degli anni, soprattutto durante il radioso ventennio del fascio littorio. E rimasti immutati, intoccati, intoccabili.
Un paio d’anni or sono, ho tentato di spiegare a un mio parente americano, giornalista, che per fare il giornalista in Italia non ci sono scuole, università, corsi. No, per fare il giornalista devi essere un giornalista. E per essere un giornalista devi far parte dell’Ordine dei Giornalisti. E per entrare a far parte dell’Ordine dei Giornalisti, devi aver fatto il giornalista senza essere un giornalista per due anni o giù di lì.
Il mio parente non mi capiva. Io pensavo che il mio inglese maccheronico distorcesse il discorso. Poi, invece, è stato il mio arguto cugino stellestrisciato a far capire a me che là, negli iu-es-ei, non solo non esistono Ordini e Albi per i giornalisti: non esiste nemmeno una parola che traduca ste robe. Il concetto stesso era difficile da comprendere.
A cosa servono gli Ordini? A regolare l’accesso a professioni di rilievo. Ok. A controllare la professionalità dei professionisti. La loro aderenza etica ai principi e ai valori e bla bla. E ok anche qui.
Verrebbe da pensare: porca miseria, è bene che sia così, in un paese come l’Italia, più controlli ci sono e meglio è. Sennò, sai questi giornalisti, di parte, assoldati, interessati: avrebbero mano libera, scriverebbero tutto ciò che gli fa comodo. A loro e a chi per loro. No, no, meglio così. Perché è vero che può starci l’errore. Ma chi sbaglia, anche se in buona fede, deve pagare perché non si ripeta. E se l’errore è commesso in malafede, per interesse o per finalità, ancora peggio.
Perché è vero che se sbaglia un architetto e casca una casa, ci sono i morti. Ma una campagna di stampa è in grado di rovinare la vita delle persone, con effetti anche mortali. E’ in grado di spostare voti. E’ in grado di direzionarli. Di creare consenso, o dissenso, di introdurre dubbi. Questi sono i compiti per cui nasce la stampa. E l’Ordine professionale “dovrebbe” vigilare che questo avvenga in modo etico, aderente alla realtà, ma soprattutto nel solo interesse del lettore. In una parola: onestamente.
Se una campagna di stampa, o anche un solo articolo, è sbagliato, falso, volutamente lesivo e così via, la missione, la ragion d’essere stessa della stampa viene meno. L’Ordine, in questo caso, dovrebbe intervenire. A salvaguardia dell’onorabilità e dell’autorevolezza della stampa tutta, e, in ultima istanza, del lettore, che magari ha votato, comprato, insultato qualcuno o qualcosa su tali basi. Dovrebbe intervenire radiando e non permettendo di continuare a far danni a queste “penne” al servizio di altri.
Dovrebbe.
Nel momento in cui un quotidiano come “Il Giornale” lancia accuse pesantissime su esponenti di uno schieramento politico, costruendo campagne di “odio a mezzo stampa” che in seguito risultano puntualmente non solo false, ma falsificate; nel momento in cui Renato Farina ammette di essere una spia al servizio di qualcuno; nel momento in cui il direttore de “La Nazione” viene beccato con le mani nel sacco, anzi, con la penna nella saccoccia (di Ligresti); nel momento in cui accade tutto questo e l’Ordine mai, mai, mai interviene... Come si giustifica, allora, la sua esistenza?
La risposta più plausibile è una: non si giustifica. In questi termini, almeno.
Oppure, si giustifica solo se si entra a farne parte perché grazie a quella tessera puoi definirti “Giornalista”, puoi entrare gratis ai musei e alle mostre, avere lo sconto del 10% sui treni.
Ognuno di noi impara a odiare le caste. Le lobby. Gli ordini professionali.
Basta che abbiano una caratteristica: che non siano quelli a cui apparteniamo noi stessi.
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martedì 2 dicembre 2008
SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZO INVERNO
Ho fatto un sogno, stanotte. Anzi, stamani, credo, per quello strano meccanismo secondo cui il sogno si interrompe sempre sul più bello, sbriciolandosi al suono dell’odiata sveglia.
Insomma, senza tanti giri di parole: ho sognato che la mia fidanzata mi tradiva.
Un tradimento inconsueto, però. Infatti, la stronza si dava da fare proprio sotto ai miei occhi, senza provare un minimo di remora. Manco mezza remorina, tanto per.
L’inconsuetudine del tradimento non finiva qua, però: le mani che razzolavano bellamente sul corpicino della mia adorata fidanzata erano di una donna. Anzi: erano di Valeria Marini. Cioè: ho sognato che la mia fidanzata mi tradiva davanti ai miei occhi con Valeria Marini. Sconcertante.
Non ricordo se nel sogno ero sconcertato, arrapato, arrabbiato. Ricordo però che in quel momento ho pensato: beh, almeno è bisessuale, non omo, quindi la Chiesa non è contro di lei. Non troppo confortante, forse, come riflessione, lo so. Quasi paradossale. Un po’ come dire: non “depenalizziamo” l’omosessualità, sennò poi i Paesi che non la tollerano saranno esposti a una pressione internazionale. Saranno messi alla gogna perché non riconoscono i diritti dei gay, delle lesbiche e così via.
Una risposta ci sarebbe, e sarebbe: “E grazie al cazzo!”. Ma i palati delicati dalle purpuree vesti, forse, si scandalizzerebbero se leggessero, anche se pare che peni et vagine siano l’argomento preferito all’ombra dei crocifissi. Argomento che, tra l’altro, dovrebbe essere loro sconosciuto, secondo i loro “regolamenti interni”.
Ma non so se si scandalizzerebbero quanto mi scandalizzo io a sentir dire queste cose e a non trovare gente coi fucili per la strada.
Forse, all’Onu dovremmo presentare un Ordine del Giorno per l’abolizione della minchionaggine, della stupidità, dell’idiozia che per certi versi ci rende ancora così simili agli uomini delle caverne.
Oppure, dovremmo chiedere l’abolizione dei sogni.
Che alla fine, poi, non manca mica tanto a questo traguardo.
PiEsse: "Voglio un mondo all'altezza dei sogni che ho", nel mio caso, non so se sia cosa buona e giusta...
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