Di ritorno dall’Annozero televisivo di Santoro, dove aveva inveito contro le occupazioni degli studenti come metodo di protesta, Giovanni Donzelli, consigliere comunale An-Pdl, ha occupato la Sala consiliare del Comune di Firenze per protesta. La coerenza è degli sciocchi, diceva Wilde. Petrarca sosteneva che il saggio muta consiglio, ma lo stolto resta della sua opinione. Donzelli non è dunque né sciocco né stolto. È più un centometrista.
venerdì 19 dicembre 2008
DoubleFace
Di ritorno dall’Annozero televisivo di Santoro, dove aveva inveito contro le occupazioni degli studenti come metodo di protesta, Giovanni Donzelli, consigliere comunale An-Pdl, ha occupato la Sala consiliare del Comune di Firenze per protesta. La coerenza è degli sciocchi, diceva Wilde. Petrarca sosteneva che il saggio muta consiglio, ma lo stolto resta della sua opinione. Donzelli non è dunque né sciocco né stolto. È più un centometrista.
martedì 9 dicembre 2008
What's goin' on?
Il mondo fa schifo.
È brutto, ingiusto, sporco. Il mondo è inquinato, corrotto. Insomma, niente di nuovo sotto il sole. L’unica cosa che cambia sono le modalità dello schifo. La crisi perpetua che muta attese, sogni e bisogni fin dall’alba dei tempi e che passa dalla caccia al mammut ai mutui subprime, dalle miniere di carbone ai contratti precari. Crisi, crisi, crisi. Crisi dell’industria, crisi dell’economia, crisi della finanza. La crisi dell’identità dell’uomo di mezzo, che non sa se è ricco o povero. Perché se sei ricco, sei ricco. Il problema non ti tange, sebbene la tua ricchezza si fondi sulla povertà di altri. Allo stesso modo, se sei povero, sei povero. Come dire: almeno lo sai. I tuoi problemi sono definiti e ti puoi armare per combattere. Anche se le tue armi sono spuntate.
Pensare che ci sono bambini che muoiono di fame non è sempre angosciante. Pensare ai bambini senza riso o pasta, che vivono nell’immondizia, per cui la speranza di vita non oltrepassa il tempo che da noi equivale a una partita di Champions League, tutto questo sa essere profondamente consolatorio. D’altronde, ancora non si muore di fame, d’altronde c’è ancora una mensa per poveri, d’altronde c’è la carità di qualcuno per qualcuno.
Ora, ci dicono ogni giorno, ce lo ripetono, di essere ottimisti. Di spendere e spandere. Ottimismo, sempre e comunque.
Ma la domanda è: perché?
Su quali basi dobbiamo guardare con fiducia al domani, alla prossima ora, se insieme alla placenta e al cordone ombelicale è stata lavata via dalla pelle anche la minima ombra di speranza.
Siate ottimisti, dicono. E lo dice chi sotto il culo ha così tante poltrone da scordarsi gli zeri del proprio conto in qualche stato estero di cui solo lui e pochi altri conoscono l’esistenza sulle mappe del vasto mare. Come moderni isolotti del tesoro di corsara memoria.
Non possiamo essere ottimisti perché noi non abbiamo speranza. Non abbiamo speranza perché non abbiamo potere, noi non abbiamo modo di scegliere il nostro futuro, e nemmeno il nostro presente. La ricchezza dei profeti dell’ottimismo si basa sulle nostre casse integrazione.
Ottimismo è una parola fuoriluogo, quando la stessa cassa integrazione sembra essere un privilegio per pochi. Ai più viene detto: grazie, il contratto non si rinnova. “Ottimismo” e “Arrangiati”, sotto questo profilo, non sono conciliabili.
Il nostro ottimismo non ha ragione di esistere. Il nostro ottimismo si veste degli squallidi gratta e vinci presi in autogrill, delle preghiere davanti a una schedina del superenalotto, della partecipazione a un reality, di una qualsiasi botta di culo che possa rendere il grigio meno grigio e che possa farti saltare lo steccato per pascolare liberamente sui verdi prati della ricchezza.
Arranchiamo, sbuffiamo. Siamo gli eroi del contratto a progetto. Quelli che non avranno pensione. Quelli che pagano per gli errori degli altri. Non abbiamo più neanche i sogni, siamo troppo impegnati a rispondere a comporre quanti più numeri possibile nei call center, a fare lavori di responsabilità per due soldi, a cercare di capire per quale motivo abbiamo sudato, pianto, sofferto, cazzeggiato, per avere un foglio con su scritto: laurea. Non abbiamo neanche i soldi per comprarci i sogni degli altri.
Siate ottimisti. Irragionevolmente ottimisti, sfacciatamente ottimisti. Non avete un lavoro, ma il lavoro non è tutto nella vita. La salute, quella sì che è importante. Che poi, se non avete un lavoro non vi infortunerete e non morirete.
Pensare che ci sono bambini che muoiono di fame non è sempre angosciante. Pensare ai bambini senza riso o pasta, che vivono nell’immondizia, per cui la speranza di vita non oltrepassa il tempo che da noi equivale a una partita di Champions League, tutto questo sa essere profondamente consolatorio. D’altronde, ancora non si muore di fame, d’altronde c’è ancora una mensa per poveri, d’altronde c’è la carità di qualcuno per qualcuno.
Ora, ci dicono ogni giorno, ce lo ripetono, di essere ottimisti. Di spendere e spandere. Ottimismo, sempre e comunque.
Ma la domanda è: perché?
Su quali basi dobbiamo guardare con fiducia al domani, alla prossima ora, se insieme alla placenta e al cordone ombelicale è stata lavata via dalla pelle anche la minima ombra di speranza.
Siate ottimisti, dicono. E lo dice chi sotto il culo ha così tante poltrone da scordarsi gli zeri del proprio conto in qualche stato estero di cui solo lui e pochi altri conoscono l’esistenza sulle mappe del vasto mare. Come moderni isolotti del tesoro di corsara memoria.
Non possiamo essere ottimisti perché noi non abbiamo speranza. Non abbiamo speranza perché non abbiamo potere, noi non abbiamo modo di scegliere il nostro futuro, e nemmeno il nostro presente. La ricchezza dei profeti dell’ottimismo si basa sulle nostre casse integrazione.
Ottimismo è una parola fuoriluogo, quando la stessa cassa integrazione sembra essere un privilegio per pochi. Ai più viene detto: grazie, il contratto non si rinnova. “Ottimismo” e “Arrangiati”, sotto questo profilo, non sono conciliabili.
Il nostro ottimismo non ha ragione di esistere. Il nostro ottimismo si veste degli squallidi gratta e vinci presi in autogrill, delle preghiere davanti a una schedina del superenalotto, della partecipazione a un reality, di una qualsiasi botta di culo che possa rendere il grigio meno grigio e che possa farti saltare lo steccato per pascolare liberamente sui verdi prati della ricchezza.
Arranchiamo, sbuffiamo. Siamo gli eroi del contratto a progetto. Quelli che non avranno pensione. Quelli che pagano per gli errori degli altri. Non abbiamo più neanche i sogni, siamo troppo impegnati a rispondere a comporre quanti più numeri possibile nei call center, a fare lavori di responsabilità per due soldi, a cercare di capire per quale motivo abbiamo sudato, pianto, sofferto, cazzeggiato, per avere un foglio con su scritto: laurea. Non abbiamo neanche i soldi per comprarci i sogni degli altri.
Siate ottimisti. Irragionevolmente ottimisti, sfacciatamente ottimisti. Non avete un lavoro, ma il lavoro non è tutto nella vita. La salute, quella sì che è importante. Che poi, se non avete un lavoro non vi infortunerete e non morirete.
Questa sì che è la vera panacea contro le così dette “morti bianche”: la disoccupazione. Ma poi non venite a dirci che non siamo ottimisti, cazzo.
venerdì 5 dicembre 2008
CASTAWAY
Casta. Caste. Lobby. Arti e mestieri. Sindacati. Partiti. Ordini professionali. La storia del nostro paese, fin dai suoi albori, si fonda su centri di potere. Legittimati nel corso degli anni, soprattutto durante il radioso ventennio del fascio littorio. E rimasti immutati, intoccati, intoccabili.
Un paio d’anni or sono, ho tentato di spiegare a un mio parente americano, giornalista, che per fare il giornalista in Italia non ci sono scuole, università, corsi. No, per fare il giornalista devi essere un giornalista. E per essere un giornalista devi far parte dell’Ordine dei Giornalisti. E per entrare a far parte dell’Ordine dei Giornalisti, devi aver fatto il giornalista senza essere un giornalista per due anni o giù di lì.
Il mio parente non mi capiva. Io pensavo che il mio inglese maccheronico distorcesse il discorso. Poi, invece, è stato il mio arguto cugino stellestrisciato a far capire a me che là, negli iu-es-ei, non solo non esistono Ordini e Albi per i giornalisti: non esiste nemmeno una parola che traduca ste robe. Il concetto stesso era difficile da comprendere.
A cosa servono gli Ordini? A regolare l’accesso a professioni di rilievo. Ok. A controllare la professionalità dei professionisti. La loro aderenza etica ai principi e ai valori e bla bla. E ok anche qui.
Verrebbe da pensare: porca miseria, è bene che sia così, in un paese come l’Italia, più controlli ci sono e meglio è. Sennò, sai questi giornalisti, di parte, assoldati, interessati: avrebbero mano libera, scriverebbero tutto ciò che gli fa comodo. A loro e a chi per loro. No, no, meglio così. Perché è vero che può starci l’errore. Ma chi sbaglia, anche se in buona fede, deve pagare perché non si ripeta. E se l’errore è commesso in malafede, per interesse o per finalità, ancora peggio.
Perché è vero che se sbaglia un architetto e casca una casa, ci sono i morti. Ma una campagna di stampa è in grado di rovinare la vita delle persone, con effetti anche mortali. E’ in grado di spostare voti. E’ in grado di direzionarli. Di creare consenso, o dissenso, di introdurre dubbi. Questi sono i compiti per cui nasce la stampa. E l’Ordine professionale “dovrebbe” vigilare che questo avvenga in modo etico, aderente alla realtà, ma soprattutto nel solo interesse del lettore. In una parola: onestamente.
Se una campagna di stampa, o anche un solo articolo, è sbagliato, falso, volutamente lesivo e così via, la missione, la ragion d’essere stessa della stampa viene meno. L’Ordine, in questo caso, dovrebbe intervenire. A salvaguardia dell’onorabilità e dell’autorevolezza della stampa tutta, e, in ultima istanza, del lettore, che magari ha votato, comprato, insultato qualcuno o qualcosa su tali basi. Dovrebbe intervenire radiando e non permettendo di continuare a far danni a queste “penne” al servizio di altri.
Dovrebbe.
Nel momento in cui un quotidiano come “Il Giornale” lancia accuse pesantissime su esponenti di uno schieramento politico, costruendo campagne di “odio a mezzo stampa” che in seguito risultano puntualmente non solo false, ma falsificate; nel momento in cui Renato Farina ammette di essere una spia al servizio di qualcuno; nel momento in cui il direttore de “La Nazione” viene beccato con le mani nel sacco, anzi, con la penna nella saccoccia (di Ligresti); nel momento in cui accade tutto questo e l’Ordine mai, mai, mai interviene... Come si giustifica, allora, la sua esistenza?
La risposta più plausibile è una: non si giustifica. In questi termini, almeno.
Oppure, si giustifica solo se si entra a farne parte perché grazie a quella tessera puoi definirti “Giornalista”, puoi entrare gratis ai musei e alle mostre, avere lo sconto del 10% sui treni.
Ognuno di noi impara a odiare le caste. Le lobby. Gli ordini professionali.
Basta che abbiano una caratteristica: che non siano quelli a cui apparteniamo noi stessi.
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martedì 2 dicembre 2008
SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZO INVERNO
Ho fatto un sogno, stanotte. Anzi, stamani, credo, per quello strano meccanismo secondo cui il sogno si interrompe sempre sul più bello, sbriciolandosi al suono dell’odiata sveglia.
Insomma, senza tanti giri di parole: ho sognato che la mia fidanzata mi tradiva.
Un tradimento inconsueto, però. Infatti, la stronza si dava da fare proprio sotto ai miei occhi, senza provare un minimo di remora. Manco mezza remorina, tanto per.
L’inconsuetudine del tradimento non finiva qua, però: le mani che razzolavano bellamente sul corpicino della mia adorata fidanzata erano di una donna. Anzi: erano di Valeria Marini. Cioè: ho sognato che la mia fidanzata mi tradiva davanti ai miei occhi con Valeria Marini. Sconcertante.
Non ricordo se nel sogno ero sconcertato, arrapato, arrabbiato. Ricordo però che in quel momento ho pensato: beh, almeno è bisessuale, non omo, quindi la Chiesa non è contro di lei. Non troppo confortante, forse, come riflessione, lo so. Quasi paradossale. Un po’ come dire: non “depenalizziamo” l’omosessualità, sennò poi i Paesi che non la tollerano saranno esposti a una pressione internazionale. Saranno messi alla gogna perché non riconoscono i diritti dei gay, delle lesbiche e così via.
Una risposta ci sarebbe, e sarebbe: “E grazie al cazzo!”. Ma i palati delicati dalle purpuree vesti, forse, si scandalizzerebbero se leggessero, anche se pare che peni et vagine siano l’argomento preferito all’ombra dei crocifissi. Argomento che, tra l’altro, dovrebbe essere loro sconosciuto, secondo i loro “regolamenti interni”.
Ma non so se si scandalizzerebbero quanto mi scandalizzo io a sentir dire queste cose e a non trovare gente coi fucili per la strada.
Forse, all’Onu dovremmo presentare un Ordine del Giorno per l’abolizione della minchionaggine, della stupidità, dell’idiozia che per certi versi ci rende ancora così simili agli uomini delle caverne.
Oppure, dovremmo chiedere l’abolizione dei sogni.
Che alla fine, poi, non manca mica tanto a questo traguardo.
PiEsse: "Voglio un mondo all'altezza dei sogni che ho", nel mio caso, non so se sia cosa buona e giusta...
lunedì 17 novembre 2008
Molestie intellettuali
Ah, come cambiano i tempi. Ero piccolo, allora, paffutello ma non grasso, come ora. Con le mie due maestre uniche, perché senz’altro molto competenti, passavo allegre giornate in quelle scuole elementari che poi avrei saputo essere, nonostante fossero italiane, tra le migliori al mondo. Ricordo i primi compiti in classe, le recite, ma come spesso accade, i ricordi migliori, quelli più dolci, hanno gli occhioni dolci delle prime cotte. Della scoperta del misterioso e sconfinato “Pianeta Donna”. Ricordi di dolori addominali al solo pensiero di una telefonata, ricordi di timidezza inaudita di fronte a un mezzo sorriso, di letterine scritte e ricevute con tanto di cuoricini e iniziali. E anche, certo, delle prime delusioni, di cuori spezzati, di lacrime e confidenze tra amici.
Di pari passo, però, un altro pensiero è vivido e forte: la scoperta della fisicità. O, detto fuori dai denti: le tastate di culo. Meno romantico come aspetto, forse, ma il primo approccio assoluto al mondo della sessualità, quando ancora il solo dare un bacio su una guancia era il limite estremo della perversione. Ricordo con allegria e un tocco di malinconia gli intervalli passati nel giardinetto di ghiaia e polvere a giocare a “acchiappino”, a squadre, maschi contro femmine, e le tastate di chiappa generose alle quali le femminucce controbattevano con tiepidi schiaffetti e sorrisi larghi.
Ah, come cambiano i tempi.
Oggi, nel vuoto del maestro unico, l’intervallo pomeridiano non si farà, poiché non ci sarà più il tempo pieno; quelle tastatine innocenti si chiamano “molestie sessuali”, e finisci dietro le sbarre, tu o i tuoi maestri, anzi maestro, che non ha controllato ed evitato la sciagura.
Domani è un altro giorno. C’è da stare tranquilli, andare e moltiplicarci.
giovedì 13 novembre 2008
La fiera delle Verità
Sarà mai possibile che ognuno può dire tranquillamente tutto quello che gli pare, fregandosene completamente della verità e senza nessun timore di essere smentito da chicchessia?
Perché, ogni volta, per qualsiasi fatto e in qualsiasi occasione, esistono “molte verità”, ognuna piegata verso la parte di chi la dice?
Perché, ogni volta, per qualsiasi fatto e in qualsiasi occasione, esistono “molte verità”, ognuna piegata verso la parte di chi la dice?
Capita così di non badare più ai dati, prenderli per veri ogni volta che vengono snocciolati davanti a uno schermo tv mentre il più delle volte sono inesatti se non del tutto falsi; capita di non far più caso alle dichiarazioni smentite dopo un giorno, o agli assassini che non ammettono mai la propria colpa.
Chi è che dovrebbe “sancire” la verità, quella vera, e unica?
Probabilmente sarebbe compito, tra gli altri, di magistrati e giornalisti. Ma, purtroppo, i primi sono spesso screditati per comodo da chi viene condannato e cerca di rivestire, spesso riuscendoci, il ruolo di vittima. Ovviamente, vittima ingiustamente condannata, vittima di “accanimento”.
I giornalisti invece pensano da soli a screditarsi, assolvendo la deprimente funzione ora di microfono, ora di altoparlante. Sempre di supporto trattasi.
La maggior parte delle persone, in questo modo, si limita a credere a quella verità tra molte che più appaga i propri orientamenti, oppure a fregarsene direttamente di tutto.
Tutto questo, però, è profondamente triste. Una verità, almeno questa, che può essere serenamente condivisa da tutti.
O no?
Chi è che dovrebbe “sancire” la verità, quella vera, e unica?
Probabilmente sarebbe compito, tra gli altri, di magistrati e giornalisti. Ma, purtroppo, i primi sono spesso screditati per comodo da chi viene condannato e cerca di rivestire, spesso riuscendoci, il ruolo di vittima. Ovviamente, vittima ingiustamente condannata, vittima di “accanimento”.
I giornalisti invece pensano da soli a screditarsi, assolvendo la deprimente funzione ora di microfono, ora di altoparlante. Sempre di supporto trattasi.
La maggior parte delle persone, in questo modo, si limita a credere a quella verità tra molte che più appaga i propri orientamenti, oppure a fregarsene direttamente di tutto.
Tutto questo, però, è profondamente triste. Una verità, almeno questa, che può essere serenamente condivisa da tutti.
O no?
venerdì 7 novembre 2008
A.B.T.P. - L'invidia del Cerone
Come si fa a fare umorismo e ironia sul Master of Cerimony? Non si può. Si può solo osservare in silenzio. Soprattutto dopo il pezzo di oggi del sempre ottimo Stella sul Corriere, nel quale si ripercorre il percorso umoristico del nostro anziano e bruttino e truccato premier, sempre incompreso, un po' come tutti i grandi geni.
Sono pochi i paesi al mondo che non hanno conosciuto direttamente il prezioso e pungente humour dell'A.B.T.P. In altre parole, in un arco di tempo relativamente concentrato, l'Italia (cioè noi) ha fatto figure di merda un po' ovunque e un po' con chiunque. Ma si sa: i comunisti e i loro mezzi di informazione sono un po' dappertutto. Dio ci scampi e liberi dagli imbecilli, dice l'A.B.T.P., dispensando poi generosamente "vadano a fanculo" corredati di lauree non più ad hororem bensì ad coglionem.
Viene così da ripensare a quei "Io non offendo mai nessuno per cultura personale" detto non secoli fa dallo stesso, e anche la levata di scudi in difesa di Brunetta quando qualcuno coi baffi ha osato notare che è "tascabile". Questi comunisti con la loro ironia rischiano di rovinare l'immagine dell'Italia all'estero, porca miseria, un'immagine che con tanta fatica l'A.B.T.P. ha costruito con grande successo.
Se fossimo un paese serio, dovremmo fare preoccupate valutazioni sullo scadere del linguaggio politico come conseguenza e come strumento. Pensiamo che un linguaggio istituzionale che usa termini come "coglioni", "fanculo", "imbecilli", non sia un errore di percorso bensì uno strumento col quale il capo di un partito-non partito riesce a fornire un termine di identificazione per i propri seguaci, più che elettori. Un rapporto, dunque, non elettore-eletto; non rappresentato-rappresentante. Un rapporto che si fa quasi messianico. Il voto non è una delega, ma un atto di fede, di cessione di potere. Non un voto: un ex-voto, semmai.
Un linguaggio non politico ma volgare, nel senso di "vulgata" ma anche in quello di "non alto", diventa in questo modo un ulteriore passaggio di "amore" tra il principe e il popolo. Così, il popolo riconosce il principe come uno dei suoi, rafforzando il proprio legame fideistico e, di pari passo, facendo proprio aprioristicamente il punto di vista del principe stesso. Anche quando, oggettivamente, tale punto di vista è indifendibile.
Strumento, quindi, ma anche conseguenza. Conseguenza di un imbarbarimento generale, di un degrado morale della classe politica. Un fatto evidente che deve però far riflettere: succede per caso, tutto questo? Davvero i politici sono così idioti e volgari, o le ragioni sono più profonde?
Anche su questo versante, la riflessione si divide in due.
La classe politica detta l'imbarbarimento sociale italiano o lo insegue?
Forse, la verità sta un po' su tutti e due i fronti. Ma proseguendo su questa "solinga via", il grave rischio è quello di avvitarsi, di entrare in una spirale al ribasso che ci porterà inevitabilmente a toccare il fondo.
E francamente, non si vedono politici "belli, giovani e abbronzati" e italici che ci prendano per mano e ci facciano risalire la china.
Sono pochi i paesi al mondo che non hanno conosciuto direttamente il prezioso e pungente humour dell'A.B.T.P. In altre parole, in un arco di tempo relativamente concentrato, l'Italia (cioè noi) ha fatto figure di merda un po' ovunque e un po' con chiunque. Ma si sa: i comunisti e i loro mezzi di informazione sono un po' dappertutto. Dio ci scampi e liberi dagli imbecilli, dice l'A.B.T.P., dispensando poi generosamente "vadano a fanculo" corredati di lauree non più ad hororem bensì ad coglionem.
Viene così da ripensare a quei "Io non offendo mai nessuno per cultura personale" detto non secoli fa dallo stesso, e anche la levata di scudi in difesa di Brunetta quando qualcuno coi baffi ha osato notare che è "tascabile". Questi comunisti con la loro ironia rischiano di rovinare l'immagine dell'Italia all'estero, porca miseria, un'immagine che con tanta fatica l'A.B.T.P. ha costruito con grande successo.
Se fossimo un paese serio, dovremmo fare preoccupate valutazioni sullo scadere del linguaggio politico come conseguenza e come strumento. Pensiamo che un linguaggio istituzionale che usa termini come "coglioni", "fanculo", "imbecilli", non sia un errore di percorso bensì uno strumento col quale il capo di un partito-non partito riesce a fornire un termine di identificazione per i propri seguaci, più che elettori. Un rapporto, dunque, non elettore-eletto; non rappresentato-rappresentante. Un rapporto che si fa quasi messianico. Il voto non è una delega, ma un atto di fede, di cessione di potere. Non un voto: un ex-voto, semmai.
Un linguaggio non politico ma volgare, nel senso di "vulgata" ma anche in quello di "non alto", diventa in questo modo un ulteriore passaggio di "amore" tra il principe e il popolo. Così, il popolo riconosce il principe come uno dei suoi, rafforzando il proprio legame fideistico e, di pari passo, facendo proprio aprioristicamente il punto di vista del principe stesso. Anche quando, oggettivamente, tale punto di vista è indifendibile.
Strumento, quindi, ma anche conseguenza. Conseguenza di un imbarbarimento generale, di un degrado morale della classe politica. Un fatto evidente che deve però far riflettere: succede per caso, tutto questo? Davvero i politici sono così idioti e volgari, o le ragioni sono più profonde?
Anche su questo versante, la riflessione si divide in due.
La classe politica detta l'imbarbarimento sociale italiano o lo insegue?
Forse, la verità sta un po' su tutti e due i fronti. Ma proseguendo su questa "solinga via", il grave rischio è quello di avvitarsi, di entrare in una spirale al ribasso che ci porterà inevitabilmente a toccare il fondo.
E francamente, non si vedono politici "belli, giovani e abbronzati" e italici che ci prendano per mano e ci facciano risalire la china.
mercoledì 5 novembre 2008
Elezioni e dintorni
Giornata emozionante, oggi. Il nuovo presidente americano è nero, giovane, preparato, bello, ammaliante. Ha sconfitto un tipico eroe a stelle e strisce, duro, combattivo, che quando ha realizzato di aver perso non ha perso un secondo ed ha chiamato «il suo presidente» per congratularsi e mettersi a disposizione per il bene del paese. Dall’altro capo del filo, parole di amicizia e rispetto, ripetute poco dopo davanti a un milione di persone reali e miliardi di occhi virtuali. Della serie: se è un bel sogno, non svegliatemi.
Come non detto: apri il giornale e vedi che Berlusconi è l’unico leader del mondo a non complimentarsi col neo Mr. President ed anzi articola un filosofico “no comment”. Uno pensa che peggio di così non si può, e invece dopo qualche pagina il “no comment” si fa rimpiangere dalle castronerie Made in Dell’Utri. P2 una montatura, Mangano un eroe, Mussolini statista e così via. Della serie: ok, lo scherzo è finito, ora smettetela su.
Ho detto smettetela. La smettete? La volete smettere?
Come non detto: apri il giornale e vedi che Berlusconi è l’unico leader del mondo a non complimentarsi col neo Mr. President ed anzi articola un filosofico “no comment”. Uno pensa che peggio di così non si può, e invece dopo qualche pagina il “no comment” si fa rimpiangere dalle castronerie Made in Dell’Utri. P2 una montatura, Mangano un eroe, Mussolini statista e così via. Della serie: ok, lo scherzo è finito, ora smettetela su.
Ho detto smettetela. La smettete? La volete smettere?
martedì 21 ottobre 2008
Partigiani di ieri, partigiani di oggi
Passando davanti alla Saschall gli scorsi 10, 11 e 12 ottobre, forse qualcuno avrà pensato: toh, ma guarda bellini, i partigiani! Sarà una specie di festa del liceo... vino buono, brindando ai vecchi tempi!
Le impressioni del distratto passante magari si sarebbero rafforzate leggendo le parole sui manifesti esterni. Parole desuete, quasi antiche, come “Resistenza”. “Costituzione”. “Liberazione”. Roba d’altri tempi, insomma: che tenerezza! E che simpatici tutti quei vecchietti!
Forse il nostro fantomatico passante, affascinato, ha deciso di entrare. Tanto per dare un’occhiata. Sai com’è, magari si rimedia un bel panino col salame. E un bicchiere di vino. Di quello buono, s’intende.
Se avesse deciso di farlo, sarebbe rimasto molto sorpreso.
Entrando nell’ex Teatro Tenda, avrebbe trovato un’atmosfera ruvidamente amichevole. Come quando un amico ti abbraccia in modo troppo energico, quasi da farti male, ma tu senti che quello è un gesto sincero. Pulito. E diretto.
Qualcosa come: qui non siamo a circuire nessuno. Qui non si chiacchera a vanvera. Qui si parla di cose serie. E in modo serio. Perché per queste cose, tanti di noi sono morti.
Con ogni probabilità, il nostro passante sarebbe stato attratto dai banchi delle associazioni di volontariato disposti lungo il perimetro circolare della sala inferiore; e se avesse alzato gli occhi verso la “galleria”, forse si sarebbe emozionato vedendo i drappi, le bandiere, gli stendardi dei gruppi partigiani strappati, sbiaditi, ricuciti, carichi di storia e di storie.
Forse sarebbe rimasto affascinato dalle foto, dalle testimonianze scritte. Dalla sobrietà dell’ambiente: quasi scarno, punto ridondante. Magari avrebbe realizzato che lì, in quel posto, non c’era affatto quel sapore di autocelebrazione che si sarebbe aspettato.
Chissà, forse si sarebbe guardato intorno chiedendosi: ma insomma, che succede qui?
Lo immaginiamo, il nostro ormai “ex-passante”, con questo punto interrogativo sulla testa che si siede in una delle poltroncine di platea, attirato dalle persone a cui finora non aveva badato e che invece si stanno accalorando in una discussione lassù, sul palco, sotto i riflettori. Beh, ascoltiamo cinque minuti poi me ne vado, magari; si sa che i partigiani hanno sempre belle storie da raccontare, dopotutto...
Avrebbe capito, dopo pochi secondi, che la sua prima impressione, quella di una “rimpatriata”, era quanto di più lontano dalla realtà.
Cosa sono stati i tre giorni della prima festa toscana dell’ANPI? È difficile etichettare un’iniziativa di questo genere sotto un nome solo, tuttavia, a dispetto di ciò che il nostro passante immaginario abbia potuto pensare, una parola sola può racchiudere un po’ tutto: attualità.
Sono gli stessi membri dell’ANPI che forse vorrebbero far rimpatriate periodiche. E, come un vecchio artigiano che dopo “sangue e sudore” si siede e ammira il suo lavoro senza nascondere un sorriso di soddisfazione, guardare quell’Italia nata –anche e soprattutto- dal loro sacrificio che segue la strada sognata in tante notti di freddo e fame in montagna e scritta nella Costituzione.
A distanza di sessanta anni, purtroppo le cose non sono andate come avevano immaginato. Ed è per senso del dovere, per rispetto per se stessi e per i propri ideali, che i partigiani non possono permettersi di abbassare la guardia.
Non abbassare la guardia. La “nuova” Resistenza passa anche per un’opera di sensibilizzazione che per tre giorni si è dipanata attraverso concerti, proiezioni, rappresentazioni teatrali, laboratori, tavole rotonde, a cui hanno partecipato partigiani, membri di associazioni e comitati, giornalisti, studiosi, politologi, costituzionalisti, autorità, storici, registi, dirigenti scolastici, scrittori con interventi ora emozionanti, ora tecnici, ora politici.
Lasciando la Saschall, il nostro ex passante avrebbe avuto le idee più chiare sul significato di quello che gli accade intorno nell’Italia di oggi. Tornando verso casa avrebbe cercato di riflettere su alcuni “dettagli”.
Perché dopo sessanta anni la Costituzione non è ancora attuata, in tanti ambiti importanti come il lavoro, come la guerra, come molti dei diritti?
Perché la Liberazione non è vissuta come patrimonio condiviso dagli italiani ma continua a essere oggetto di scontro politico?
Perché, se “Liberazione” viene da “Libertà”, di quel “Popolo della suddetta” in certe occasioni non si presenta mai nessun rappresentante?
Perché il capo del Popolo della Libertà non ha mai partecipato neanche in veste ufficiale ad una Festa del Venticinque Aprile?
Domande che potrebbero turbare la nostra tranquilla e italica esistenza medioborghese. Ma ormai, i nostri “fantomatici passanti” hanno imparato il trucco: basta non pensarci. The trick is not to care. A casa, tanto, ci sono un abbondante piatto di spaghetti e una tv accesa ad aspettarci. Se poi un giorno non ci saranno più, e sempre se si è in tempo, si vedrà cosa fare. Semmai.
Le impressioni del distratto passante magari si sarebbero rafforzate leggendo le parole sui manifesti esterni. Parole desuete, quasi antiche, come “Resistenza”. “Costituzione”. “Liberazione”. Roba d’altri tempi, insomma: che tenerezza! E che simpatici tutti quei vecchietti!
Forse il nostro fantomatico passante, affascinato, ha deciso di entrare. Tanto per dare un’occhiata. Sai com’è, magari si rimedia un bel panino col salame. E un bicchiere di vino. Di quello buono, s’intende.
Se avesse deciso di farlo, sarebbe rimasto molto sorpreso.
Entrando nell’ex Teatro Tenda, avrebbe trovato un’atmosfera ruvidamente amichevole. Come quando un amico ti abbraccia in modo troppo energico, quasi da farti male, ma tu senti che quello è un gesto sincero. Pulito. E diretto.
Qualcosa come: qui non siamo a circuire nessuno. Qui non si chiacchera a vanvera. Qui si parla di cose serie. E in modo serio. Perché per queste cose, tanti di noi sono morti.
Con ogni probabilità, il nostro passante sarebbe stato attratto dai banchi delle associazioni di volontariato disposti lungo il perimetro circolare della sala inferiore; e se avesse alzato gli occhi verso la “galleria”, forse si sarebbe emozionato vedendo i drappi, le bandiere, gli stendardi dei gruppi partigiani strappati, sbiaditi, ricuciti, carichi di storia e di storie.
Forse sarebbe rimasto affascinato dalle foto, dalle testimonianze scritte. Dalla sobrietà dell’ambiente: quasi scarno, punto ridondante. Magari avrebbe realizzato che lì, in quel posto, non c’era affatto quel sapore di autocelebrazione che si sarebbe aspettato.
Chissà, forse si sarebbe guardato intorno chiedendosi: ma insomma, che succede qui?
Lo immaginiamo, il nostro ormai “ex-passante”, con questo punto interrogativo sulla testa che si siede in una delle poltroncine di platea, attirato dalle persone a cui finora non aveva badato e che invece si stanno accalorando in una discussione lassù, sul palco, sotto i riflettori. Beh, ascoltiamo cinque minuti poi me ne vado, magari; si sa che i partigiani hanno sempre belle storie da raccontare, dopotutto...
Avrebbe capito, dopo pochi secondi, che la sua prima impressione, quella di una “rimpatriata”, era quanto di più lontano dalla realtà.
Cosa sono stati i tre giorni della prima festa toscana dell’ANPI? È difficile etichettare un’iniziativa di questo genere sotto un nome solo, tuttavia, a dispetto di ciò che il nostro passante immaginario abbia potuto pensare, una parola sola può racchiudere un po’ tutto: attualità.
Sono gli stessi membri dell’ANPI che forse vorrebbero far rimpatriate periodiche. E, come un vecchio artigiano che dopo “sangue e sudore” si siede e ammira il suo lavoro senza nascondere un sorriso di soddisfazione, guardare quell’Italia nata –anche e soprattutto- dal loro sacrificio che segue la strada sognata in tante notti di freddo e fame in montagna e scritta nella Costituzione.
A distanza di sessanta anni, purtroppo le cose non sono andate come avevano immaginato. Ed è per senso del dovere, per rispetto per se stessi e per i propri ideali, che i partigiani non possono permettersi di abbassare la guardia.
Non abbassare la guardia. La “nuova” Resistenza passa anche per un’opera di sensibilizzazione che per tre giorni si è dipanata attraverso concerti, proiezioni, rappresentazioni teatrali, laboratori, tavole rotonde, a cui hanno partecipato partigiani, membri di associazioni e comitati, giornalisti, studiosi, politologi, costituzionalisti, autorità, storici, registi, dirigenti scolastici, scrittori con interventi ora emozionanti, ora tecnici, ora politici.
Lasciando la Saschall, il nostro ex passante avrebbe avuto le idee più chiare sul significato di quello che gli accade intorno nell’Italia di oggi. Tornando verso casa avrebbe cercato di riflettere su alcuni “dettagli”.
Perché dopo sessanta anni la Costituzione non è ancora attuata, in tanti ambiti importanti come il lavoro, come la guerra, come molti dei diritti?
Perché la Liberazione non è vissuta come patrimonio condiviso dagli italiani ma continua a essere oggetto di scontro politico?
Perché, se “Liberazione” viene da “Libertà”, di quel “Popolo della suddetta” in certe occasioni non si presenta mai nessun rappresentante?
Perché il capo del Popolo della Libertà non ha mai partecipato neanche in veste ufficiale ad una Festa del Venticinque Aprile?
Domande che potrebbero turbare la nostra tranquilla e italica esistenza medioborghese. Ma ormai, i nostri “fantomatici passanti” hanno imparato il trucco: basta non pensarci. The trick is not to care. A casa, tanto, ci sono un abbondante piatto di spaghetti e una tv accesa ad aspettarci. Se poi un giorno non ci saranno più, e sempre se si è in tempo, si vedrà cosa fare. Semmai.
venerdì 26 settembre 2008
Quando muore un partigiano
L’addio a “Foco”
Quando muore un partigiano
È scomparso Enio Sardelli. Un “simbolo”, un partigiano, un uomo
Di Gianni Somigli
Domenici, Cruccolini, Nencini, il PD, Sinistra Democratica, Rifondazione, l’Anpi, i Centri sociali, numerosi cittadini. Tante le esternazioni di dolore per la perdita di Enio Sardelli, il partigiano “Foco”, scomparso dopo un lungo periodo difficile il 28 aprile scorso all’età di 82 anni.
Mentre Alemanno, neo-sindaco-ex-fascista di Roma, fa visita alle Fosse Ardeatine ed esalta i valori della Resistenza come patrimonio comune degli italiani (se in modo sincero o strumentale, chi lo sa?), potrebbe stupire il silenzio della desta fiorentina di fronte alla perdita di uno dei simboli più importanti della Lotta per la Liberazione di Firenze. Potrebbe. Dovrebbe.
Noi di Informa Firenze intendiamo lasciare ad altri le astratte dissertazioni politiche intorno a valori e principi, così come le sterili disquisizioni sulla presunta “Riconciliazione”, che ha però sempre più il solo sapore della storia riscritta e della negazione. In tempi in cui in Italia si vuol far sparire perfino il darwinismo dai libri di scuola, si fatica a restare lucidi e calmi. Come se la “Riconciliazione” non si realizzasse ogni giorno quando ci esprimiamo liberamente. Quando leggiamo i giornali. Quando votiamo.
Quando abbiamo cercato “Foco” per l’intervista poi pubblicata sull’Informa Firenze di aprile, siamo partiti con l’idea sbagliata: quella di far domande e chiedere spunti a un “simbolo”. Simbolo di libertà, giustizia, fratellanza. Di eroicità. Uno scrigno di ricordi da cui attingere frasi importanti per impreziosire un articolo che dimostrasse un’idea. Certo, per rinfrescare la memoria di qualcuno. O per chiarire le idee ad altri.
Siamo partiti con un’idea non del tutto corretta, e ce ne siamo resi conto durante le diverse ore trascorse al telefono con Enio.
La persona con cui stavamo parlando, che ci stava raccontando la sua vita, che ci stava svelando episodi tristi oppure aneddoti semicomici del tempo delle notti d’inverno trascorse a fare la sentinella nei boschi, non era un simbolo. Non solo, almeno. Quello era un uomo. Anzi: un uomo che da ragazzo fece una scelta.
In un paese di “terzisti” e “ignavi”, per Dante disprezzati finanche dall’Inferno, già fare una scelta è cosa inconsueta. Un atto di coraggio eroico. Un atto di fede.
Quello che pare sempre meno chiaro ma che dovrebbe essere lampante è altro. E cioè che non tutte le scelte sono uguali. Ci sono scelte giuste e ci sono scelte sbagliate. Chi a quel tempo fece la scelta giusta, non può, non deve essere messo alla pari di chi al contrario optò per la scelta sbagliata. Categorie sempre pericolose, il “giusto” e lo “sbagliato”; ma, almeno in questo caso, è la Storia a definirne i limiti corretti.
Il racconto di Enio si snodò lungo tutto la sua vita. Iniziando a scrivere, poi, ci siamo resi conto che racchiudere tutto quel tesoro in due sole pagine era un’impresa molto complicata. Abbiamo così cercato di focalizzare l’attenzione, così, attraverso quella conversazione, su alcuni aspetti specifici.
Ci sono pseudo-intellettuali per autocertificazione che tornano periodicamente a insistere sulla necessità di “smitizzare” la Lotta Partigiana. Ovvio: a fini politici, e in modo becero, strumentale, ignorante.
Parlando con Enio, però, anche in noi è avvenuto un qualcosa di molto simile. Solo che, paradossalmente, la “nostra” smitizzazione ha reso ancora più forte il mito.
Quando le persone sono elevate a “mito”, la retorica porta a tracciare profili non sempre veritieri. Quantomeno, sopra le righe. Si annacqua un aspetto che, al contrario, è primario. Anzi, forse il più importante di tutti: l’aspetto umano.
Le parole di Foco ci hanno fatto ben capire che quella guerra fu una guerra tra il bene e il male. A combatterla sono stati uomini. Ragazzi. Donne. Esseri umani devastati dalla paura, dalla fame, dal coraggio, dalla speranza, che hanno scelto il “bene”, proprio e dell’umanità, e che si sono trovati a combattere contro un “male”. Un male composto anch’esso da esseri, sulla cui umanità è più che lecito porsi qualche dubbio.
Enio ci ha regalato il racconto di questa umanità. Di chi ce l’aveva e di chi l’aveva persa. Ci ha dipinto la sua infanzia punteggiata di domande alla mamma: perché i fascisti fanno male alla gente? Perché entrano nelle case e portano via i nostri amici? Perché?
Le domande di Enio da bambino non hanno mai trovato risposta. Presto, però, ne sono nate altre: Enio, insieme a tanti altri, ha replicato mettendo in gioco la propria vita per conquistarsi una libertà mai conosciuta e anche per questo così anelata.
Da quel momento e fino al 28 aprile scorso, Enio è stato il partigiano “Foco”. Un uomo che, con la sua vita, ci ricorda che le idee e gli ideali, senza uomini e donne pronti a combattere per essi, sono parole vuote come un mondo senza fiori e stelle. Questo era, ed è, essere vivo sotto una dittatura fascista: vivere in un mondo senza fiori e senza stelle. Che pure c’erano, erano lì, ed erano bellissime ma tu non avevi la libertà di riempirtene gli occhi e il cuore e il pensiero.
Vogliamo “smitizzare” i partigiani come Enio? Facciamolo, e ci accorgeremo che la memoria ne esce ancor più rafforzata. La leggenda, amplificata. Lasciamo cadere le vestigia del mito: “umanizzando” la storia si rendono più certi i confini di un territorio minato, dove negli ultimi anni chiunque si sente libero di dire tutto e il contrario di tutto, spingendo verso la radicalizzazione e la giustificazione per poi ricorrere a ipocrite prese di distanza quando qualche fesso ci casca davvero.
Perdere una persona come Enio Sardelli non solo ci addolora profondamente a livello umano; perdere uomini e donne come Enio fa nascere in noi una buona dose di preoccupazione. Quando anche gli ultimi testimoni di quell’epoca se ne saranno andati, cosa succederà in questa Italia così atta alle derive, così felice di voltare non pagina ma faccia, così predisposta a rinnegare se stessa e quello che il giorno prima era vero, il giorno dopo non lo è più?
La memoria di Enio Sardelli e di tutti coloro che parteciparono a quei giorni di sofferenza e speranza vive e continuerà a vivere nella Costituzione italiana, come lo stesso Foco tuonò pochi giorni prima di morire.
In noi, però, rimane la tristezza per la perdita di un amico che, non troppi anni fa, mise in gioco la sua giovane vita per regalare a noi, italiani di oggi, un mondo migliore. Fatto di stelle e fiori. Cerchiamo di meritarcelo.
Quando muore un partigiano
È scomparso Enio Sardelli. Un “simbolo”, un partigiano, un uomo
Di Gianni Somigli
Domenici, Cruccolini, Nencini, il PD, Sinistra Democratica, Rifondazione, l’Anpi, i Centri sociali, numerosi cittadini. Tante le esternazioni di dolore per la perdita di Enio Sardelli, il partigiano “Foco”, scomparso dopo un lungo periodo difficile il 28 aprile scorso all’età di 82 anni.
Mentre Alemanno, neo-sindaco-ex-fascista di Roma, fa visita alle Fosse Ardeatine ed esalta i valori della Resistenza come patrimonio comune degli italiani (se in modo sincero o strumentale, chi lo sa?), potrebbe stupire il silenzio della desta fiorentina di fronte alla perdita di uno dei simboli più importanti della Lotta per la Liberazione di Firenze. Potrebbe. Dovrebbe.
Noi di Informa Firenze intendiamo lasciare ad altri le astratte dissertazioni politiche intorno a valori e principi, così come le sterili disquisizioni sulla presunta “Riconciliazione”, che ha però sempre più il solo sapore della storia riscritta e della negazione. In tempi in cui in Italia si vuol far sparire perfino il darwinismo dai libri di scuola, si fatica a restare lucidi e calmi. Come se la “Riconciliazione” non si realizzasse ogni giorno quando ci esprimiamo liberamente. Quando leggiamo i giornali. Quando votiamo.
Quando abbiamo cercato “Foco” per l’intervista poi pubblicata sull’Informa Firenze di aprile, siamo partiti con l’idea sbagliata: quella di far domande e chiedere spunti a un “simbolo”. Simbolo di libertà, giustizia, fratellanza. Di eroicità. Uno scrigno di ricordi da cui attingere frasi importanti per impreziosire un articolo che dimostrasse un’idea. Certo, per rinfrescare la memoria di qualcuno. O per chiarire le idee ad altri.
Siamo partiti con un’idea non del tutto corretta, e ce ne siamo resi conto durante le diverse ore trascorse al telefono con Enio.
La persona con cui stavamo parlando, che ci stava raccontando la sua vita, che ci stava svelando episodi tristi oppure aneddoti semicomici del tempo delle notti d’inverno trascorse a fare la sentinella nei boschi, non era un simbolo. Non solo, almeno. Quello era un uomo. Anzi: un uomo che da ragazzo fece una scelta.
In un paese di “terzisti” e “ignavi”, per Dante disprezzati finanche dall’Inferno, già fare una scelta è cosa inconsueta. Un atto di coraggio eroico. Un atto di fede.
Quello che pare sempre meno chiaro ma che dovrebbe essere lampante è altro. E cioè che non tutte le scelte sono uguali. Ci sono scelte giuste e ci sono scelte sbagliate. Chi a quel tempo fece la scelta giusta, non può, non deve essere messo alla pari di chi al contrario optò per la scelta sbagliata. Categorie sempre pericolose, il “giusto” e lo “sbagliato”; ma, almeno in questo caso, è la Storia a definirne i limiti corretti.
Il racconto di Enio si snodò lungo tutto la sua vita. Iniziando a scrivere, poi, ci siamo resi conto che racchiudere tutto quel tesoro in due sole pagine era un’impresa molto complicata. Abbiamo così cercato di focalizzare l’attenzione, così, attraverso quella conversazione, su alcuni aspetti specifici.
Ci sono pseudo-intellettuali per autocertificazione che tornano periodicamente a insistere sulla necessità di “smitizzare” la Lotta Partigiana. Ovvio: a fini politici, e in modo becero, strumentale, ignorante.
Parlando con Enio, però, anche in noi è avvenuto un qualcosa di molto simile. Solo che, paradossalmente, la “nostra” smitizzazione ha reso ancora più forte il mito.
Quando le persone sono elevate a “mito”, la retorica porta a tracciare profili non sempre veritieri. Quantomeno, sopra le righe. Si annacqua un aspetto che, al contrario, è primario. Anzi, forse il più importante di tutti: l’aspetto umano.
Le parole di Foco ci hanno fatto ben capire che quella guerra fu una guerra tra il bene e il male. A combatterla sono stati uomini. Ragazzi. Donne. Esseri umani devastati dalla paura, dalla fame, dal coraggio, dalla speranza, che hanno scelto il “bene”, proprio e dell’umanità, e che si sono trovati a combattere contro un “male”. Un male composto anch’esso da esseri, sulla cui umanità è più che lecito porsi qualche dubbio.
Enio ci ha regalato il racconto di questa umanità. Di chi ce l’aveva e di chi l’aveva persa. Ci ha dipinto la sua infanzia punteggiata di domande alla mamma: perché i fascisti fanno male alla gente? Perché entrano nelle case e portano via i nostri amici? Perché?
Le domande di Enio da bambino non hanno mai trovato risposta. Presto, però, ne sono nate altre: Enio, insieme a tanti altri, ha replicato mettendo in gioco la propria vita per conquistarsi una libertà mai conosciuta e anche per questo così anelata.
Da quel momento e fino al 28 aprile scorso, Enio è stato il partigiano “Foco”. Un uomo che, con la sua vita, ci ricorda che le idee e gli ideali, senza uomini e donne pronti a combattere per essi, sono parole vuote come un mondo senza fiori e stelle. Questo era, ed è, essere vivo sotto una dittatura fascista: vivere in un mondo senza fiori e senza stelle. Che pure c’erano, erano lì, ed erano bellissime ma tu non avevi la libertà di riempirtene gli occhi e il cuore e il pensiero.
Vogliamo “smitizzare” i partigiani come Enio? Facciamolo, e ci accorgeremo che la memoria ne esce ancor più rafforzata. La leggenda, amplificata. Lasciamo cadere le vestigia del mito: “umanizzando” la storia si rendono più certi i confini di un territorio minato, dove negli ultimi anni chiunque si sente libero di dire tutto e il contrario di tutto, spingendo verso la radicalizzazione e la giustificazione per poi ricorrere a ipocrite prese di distanza quando qualche fesso ci casca davvero.
Perdere una persona come Enio Sardelli non solo ci addolora profondamente a livello umano; perdere uomini e donne come Enio fa nascere in noi una buona dose di preoccupazione. Quando anche gli ultimi testimoni di quell’epoca se ne saranno andati, cosa succederà in questa Italia così atta alle derive, così felice di voltare non pagina ma faccia, così predisposta a rinnegare se stessa e quello che il giorno prima era vero, il giorno dopo non lo è più?
La memoria di Enio Sardelli e di tutti coloro che parteciparono a quei giorni di sofferenza e speranza vive e continuerà a vivere nella Costituzione italiana, come lo stesso Foco tuonò pochi giorni prima di morire.
In noi, però, rimane la tristezza per la perdita di un amico che, non troppi anni fa, mise in gioco la sua giovane vita per regalare a noi, italiani di oggi, un mondo migliore. Fatto di stelle e fiori. Cerchiamo di meritarcelo.
Resistere, resistere, resistere!
ANPI Toscana
Tre giorni per festeggiare la Costituzione. E difenderla
Il 10, 11 e 12 ottobre prossimi alla SASCHALL con incontri, musica, dibattiti
Di Gianni Somigli
Vi avvertiamo: quello che vi apprestate a leggere è un articolo di parte. Di più: l’articolo che state per leggere non solo sta da una parte ma, accusateci pure di presunzione, sta dalla parte giusta.
Perché la parte giusta non è quella dettata dalla propria coscienza. Non sempre. Ci sono alcune volte in cui il giusto e lo sbagliato sono oggettivi. Netti. A volte, tra il bene e il male non ci sono sfumature, ed una scelta sbagliata resta quello che era e continua ad essere: una scelta sbagliata. Nonostante il giustificazionismo che parla di scelte fatte in buona fede, nonostante il revisionismo che vuol rileggere la storia e darle nuovi significati.
Probabilmente, i soldati delle SS erano in buona fede quando bruciavano ebrei, zingari, menomati, dissidenti.
Probabilmente, erano in buonafede i razzisti sudafricani per cui l’apartheid era cosa naturale, buona e giusta.
Probabilmente erano, e ancora sono, in buonafede i soldati comunisti cinesi in Tibet.
E probabilmente, erano in buonafede i fascisti che terrorizzarono, uccisero, violentarono prima, durante e dopo la guerra.
Buonafede che, come sarà facile intuire, non assolve certo da azioni che hanno segnato il corso della Storia.
Quella stessa buonafede che sicuramente albergava nel cuore e nelle azioni di Martin Luther King. Nelle battaglie di Nelson Mandela. Nella non violenza di Mahatma Gandhi, e di mille altri che lottarono e lottano per la parte giusta.
Negli USA, in India, in Sudafrica, nessuno si sognerebbe di mettere in discussione quale sia la parte giusta o la parte sbagliata: è la Storia che lo afferma. Nessuno si sognerebbe di dire che l’apartheid ha prodotto “anche cose buone”. O che, a parte qualche piccolo quiproquo, il razzismo in fondo non era (o è?) così male. In Germania nessuno avrebbe il coraggio di dire che “comunque” il nazismo creò posti di lavoro e rilanciò l’economia.
In Italia, invece, non solo ci si sogna di dirlo: si dice. E non sono solo discorsi di qualche nostalgico, di qualche xenofobo, no: sono libri che vendono milioni di copie, sono discorsi tenuti in occasioni ufficiali da Ministri della Repubblica, che hanno giurato sulla Costituzione.
Sono passati quindici anni da quando Indro Montanelli, dalle colonne della sua “Voce”, consigliava ai politici di rileggersela, quella Costituzione su cui si basa l’ordinamento democratico del nostro paese. Fu accusato di essere comunista, secondo la classica logica italiana del “o di qua o di là”. Caro Indro, le cose sono cambiate in quindici anni. In peggio. Fortunatamente, te ne sei andato prima di assistere a questo sfacelo. Avevi ragione tu: ma quali “magnifiche sorti, e progressive”.
Perché non si tratta di un “giochino” del tipo: qual è stato il male assoluto e quale il male relativo, cosa è stato il bene e cosa il quasi bene. Si sentono discussioni ridicole da varie parti, fatte da persone o personaggi di fronte ai quali viene da chiedersi in che mani siamo finiti, ma che soprattutto non sembrano rendersi che le proprie parole provocano delle reazioni. Soprattutto su chi è più malleabile, influenzabile, manipolabile; su chi forma le proprie opinioni solo ed esclusivamente su tali parole.
Così, mentre a Castello i “camerati” di “Quota 33” aprono un centro culturale (o presunto tale) dove discorrere della propria differenza dalla massa, esultando per “aver aperto una breccia nella rossa Firenze”, in nome ma soprattutto in difesa della Costituzione della Repubblica Italiana, l’ANPI TOSCANA organizza la prima festa regionale dell’ANPI: il 10, 11 e 12 ottobre prossimi alla SASCHALL di Firenze, una tre giorni di dibattiti, incontri, musica, per festeggiare i sessanta anni della nostra Carta fondamentale. E, viene da dire “purtroppo”, ancora per difenderne i valori, i principi, il messaggio.
«Per la Toscana, questa festa è una grande novità e un impegno per il futuro – dice Silvano Sarti, presidente dell’ANPI Provinciale Firenze -. La sfida del rinnovamento è aprirsi ai giovani, incontrarli, lavorare insieme. È questa la condizione principale affinché l’ANPI un’associazione di massa, in grado di rispondere agli attacchi di chi prova a mettere sullo stesso piano partigiani e repubblichini. Abbiamo il compito di riaffermare i valori della lotta partigiana, con sempre più forza e convinzione, per farli diventare, ogni giorno di più, di tutti gli antifascisti».«La Resistenza è stata una lotta giusta e dalla parte giusta. I valori che abbiamo difeso e costruito – prosegue Sarti - erano i valori fondamentali della nostra civiltà sovvertiti dalla dittatura fascista. Il nostro ruolo, oggi, è quello di consegnare alle nuove generazioni i valori della Resistenza, affinché non si annullino, ma si rafforzino. E visto l’impegno dei giovani dimostrato per la realizzazione di questa festa regionale dell’ANPI, si può ben sperare».
Tre giorni per festeggiare la Costituzione. E difenderla
Il 10, 11 e 12 ottobre prossimi alla SASCHALL con incontri, musica, dibattiti
Di Gianni Somigli
Vi avvertiamo: quello che vi apprestate a leggere è un articolo di parte. Di più: l’articolo che state per leggere non solo sta da una parte ma, accusateci pure di presunzione, sta dalla parte giusta.
Perché la parte giusta non è quella dettata dalla propria coscienza. Non sempre. Ci sono alcune volte in cui il giusto e lo sbagliato sono oggettivi. Netti. A volte, tra il bene e il male non ci sono sfumature, ed una scelta sbagliata resta quello che era e continua ad essere: una scelta sbagliata. Nonostante il giustificazionismo che parla di scelte fatte in buona fede, nonostante il revisionismo che vuol rileggere la storia e darle nuovi significati.
Probabilmente, i soldati delle SS erano in buona fede quando bruciavano ebrei, zingari, menomati, dissidenti.
Probabilmente, erano in buonafede i razzisti sudafricani per cui l’apartheid era cosa naturale, buona e giusta.
Probabilmente erano, e ancora sono, in buonafede i soldati comunisti cinesi in Tibet.
E probabilmente, erano in buonafede i fascisti che terrorizzarono, uccisero, violentarono prima, durante e dopo la guerra.
Buonafede che, come sarà facile intuire, non assolve certo da azioni che hanno segnato il corso della Storia.
Quella stessa buonafede che sicuramente albergava nel cuore e nelle azioni di Martin Luther King. Nelle battaglie di Nelson Mandela. Nella non violenza di Mahatma Gandhi, e di mille altri che lottarono e lottano per la parte giusta.
Negli USA, in India, in Sudafrica, nessuno si sognerebbe di mettere in discussione quale sia la parte giusta o la parte sbagliata: è la Storia che lo afferma. Nessuno si sognerebbe di dire che l’apartheid ha prodotto “anche cose buone”. O che, a parte qualche piccolo quiproquo, il razzismo in fondo non era (o è?) così male. In Germania nessuno avrebbe il coraggio di dire che “comunque” il nazismo creò posti di lavoro e rilanciò l’economia.
In Italia, invece, non solo ci si sogna di dirlo: si dice. E non sono solo discorsi di qualche nostalgico, di qualche xenofobo, no: sono libri che vendono milioni di copie, sono discorsi tenuti in occasioni ufficiali da Ministri della Repubblica, che hanno giurato sulla Costituzione.
Sono passati quindici anni da quando Indro Montanelli, dalle colonne della sua “Voce”, consigliava ai politici di rileggersela, quella Costituzione su cui si basa l’ordinamento democratico del nostro paese. Fu accusato di essere comunista, secondo la classica logica italiana del “o di qua o di là”. Caro Indro, le cose sono cambiate in quindici anni. In peggio. Fortunatamente, te ne sei andato prima di assistere a questo sfacelo. Avevi ragione tu: ma quali “magnifiche sorti, e progressive”.
Perché non si tratta di un “giochino” del tipo: qual è stato il male assoluto e quale il male relativo, cosa è stato il bene e cosa il quasi bene. Si sentono discussioni ridicole da varie parti, fatte da persone o personaggi di fronte ai quali viene da chiedersi in che mani siamo finiti, ma che soprattutto non sembrano rendersi che le proprie parole provocano delle reazioni. Soprattutto su chi è più malleabile, influenzabile, manipolabile; su chi forma le proprie opinioni solo ed esclusivamente su tali parole.
Così, mentre a Castello i “camerati” di “Quota 33” aprono un centro culturale (o presunto tale) dove discorrere della propria differenza dalla massa, esultando per “aver aperto una breccia nella rossa Firenze”, in nome ma soprattutto in difesa della Costituzione della Repubblica Italiana, l’ANPI TOSCANA organizza la prima festa regionale dell’ANPI: il 10, 11 e 12 ottobre prossimi alla SASCHALL di Firenze, una tre giorni di dibattiti, incontri, musica, per festeggiare i sessanta anni della nostra Carta fondamentale. E, viene da dire “purtroppo”, ancora per difenderne i valori, i principi, il messaggio.
«Per la Toscana, questa festa è una grande novità e un impegno per il futuro – dice Silvano Sarti, presidente dell’ANPI Provinciale Firenze -. La sfida del rinnovamento è aprirsi ai giovani, incontrarli, lavorare insieme. È questa la condizione principale affinché l’ANPI un’associazione di massa, in grado di rispondere agli attacchi di chi prova a mettere sullo stesso piano partigiani e repubblichini. Abbiamo il compito di riaffermare i valori della lotta partigiana, con sempre più forza e convinzione, per farli diventare, ogni giorno di più, di tutti gli antifascisti».«La Resistenza è stata una lotta giusta e dalla parte giusta. I valori che abbiamo difeso e costruito – prosegue Sarti - erano i valori fondamentali della nostra civiltà sovvertiti dalla dittatura fascista. Il nostro ruolo, oggi, è quello di consegnare alle nuove generazioni i valori della Resistenza, affinché non si annullino, ma si rafforzino. E visto l’impegno dei giovani dimostrato per la realizzazione di questa festa regionale dell’ANPI, si può ben sperare».
Fannulloni eccellenti...
Pubblica Amministrazione
Eccellenze e fannulloni, le grandi battaglie del “mini-Ministro”
Firenze cinque volte nella lista dei “buoni” di Renato Brunetta. E i cattivi...
Di Gianni Somigli
Gestione della qualità all’ITI-IPIA Leonardo Da Vinci; progetto del Comune “Innovazione e modernizzazione”; progetto “Web DPC: un sistema di supply chain farmaceutico” dell’ASL 10 Firenze, a cui appartiene anche il progetto “Modernizzazione e innovazione della prevenzione veterinaria” e infine il portale web “LineaComune.it”.
Il nome di Firenze risuona ben cinque volte tra le prime duecento storie di eccellenza della Pubblica Amministrazione. Per cinque volte Firenze risponde “presente” all’appello fatto dal ministro Brunetta. Quello fatto dal registro dei buoni, non dalla lista nera dei fannulloni, di cui forse avrete sentito parlare nei mesi scorsi, nonostante le reti televisive abbiano quasi oscurato la notizia...
Lasciamo la satira a chi (secondo politici, giudici e Chiesa) la “può” (non necessariamente “sa”) fare, e parliamo di quello che il ministro per la Pubblica Amministrazione e Innovazione, Renato Brunetta, ha fatto negli ultimi mesi.
Già in quest’ultima frase c’è un forte elemento di novità, di quelli che senz’altro fanno salire le quotazioni di gradimento verso il “mini-Ministro”: il verbo “ha fatto”. Un verbo a cui gli italiani sono stati poco abituati, dicono in tanti analisti frequentatori dei salotti televisivi, e la differenza sta tutta lì. Un Governo che fa, un Governo che agisce, un Governo decisionista come il suo Capo: così si spiega l’apprezzamento, o presunto tale, verso l’Esecutivo.
Noi non frequentiamo neanche gli ingressi degli studi tv, figuriamoci i salotti. Ma troviamo semplicistico il ragionamento. Le conclusioni, scontate, ovvie, quantomeno affrettate. Un consenso creato per creare consenso.
È senz’altro vero che in uno strano Paese come il nostro, abituato alle paralisi istituzionali dovute alla litigiosità politica (intesa come “tra politici”, non con argomenti politici alla base), verbi come “agire” e “decidere” suonano nuovi e importanti. Sponsorizzati e venduti poi dall’Uomo del Fare, come solo il Presidente del Consiglio sa proporsi, ancora di più.
Ci ostentiamo a credere che agire sia importante, ma che rimanga una differenza essenziale, non da poco, tra “fare bene” e “fare male”. Dicono: lasciateci lavorare. A parte che tecnicamente non si avrebbero comunque strumenti per farli smettere, è giusto, ci chiediamo ingenuamente, fingere che questa sia la prima volta che “li lasciamo lavorare” e che sia quindi giusto fidarsi?
Ognuno darà le sue risposte, magari facendosi due conti in tasca prima di guardare Porta a Porta o un qualche telegiornale.
Un po’ per abitudine, un po’ per fiorentinità, siamo portati ad una certa diffidenza verso chi ci governa. Spesso, se non sempre.
Come porsi dunque verso il ministro Renato Brunetta e la sua battaglia contro i fannulloni ed a favore delle “pratiche di buon governo”?
Le voci a proposito sono tante: ci sono diverse persone che sostengono che, in fondo, non è cambiato proprio nulla. Ma c’è chi dice che la verità è un’altra. Che è cambiato tutto, che i “fannulloni” adesso lavorano, col mini-Ministro che sventola percentuali da capogiro sugli effetti delle sue circolari, quasi miracolosi nel debellare le malattie. «Sono il primo ministro con poteri taumaturgici» dichiarò il baldanzoso Brunetta in tv.
Ed è qui che semmai arriva l’inghippo.
Il ministro Brunetta ha fino ad ora saputo dove andare a colpire. Indubbiamente, ha saputo affrontare uno dei vulnus più vituperati dagli italiani: l’inefficienza delle Amministrazioni Pubbliche, un vulnus divenuto quasi luogo comune. Un farraginoso, vecchio gigante con cui tutti ci siamo scontrati e da cui, pressoché sempre, ne abbiamo buscate.
Non siamo in grado di sostenere che i provvedimenti brunettiani siano realmente taumaturgici, né che essi siano al contrario solo “spot” populisti i cui effetti non modificheranno il ventre molle dell’apparato statale.
Quello che è certo è che il professore Brunetta ha saputo impersonare un ruolo accattivante, svecchiando l’immagine di un sistema agonizzante, anche attraverso concorsi, vignette, battute. Un linguaggio popolare, un “antiburocratichese” per parlare di burocrazia. E nonostante non si possa dire (non ce ne voglia il mini-Ministro) che sia un bell’uomo, è indiscutibile che Brunetta in televisione ci sappia stare. Che sappia usare il mezzo, strizzare l’occhio al pubblico, accreditandosi come uno dalla sua parte che lotta per cambiare le cose.
Se sia un affabulatore o un modernizzatore reale, è troppo presto per dirlo. In questo caso crediamo sia giusto “lasciarlo lavorare”, lasciarlo “fare”, per poi giudicare (col voto) se ciò che è stato fatto, sia stato fatto bene o sia stato fatto male.
Siamo ormai un paese di disillusi: chissà in quale dei due casi rimarremmo più sorpresi.
Eccellenze e fannulloni, le grandi battaglie del “mini-Ministro”
Firenze cinque volte nella lista dei “buoni” di Renato Brunetta. E i cattivi...
Di Gianni Somigli
Gestione della qualità all’ITI-IPIA Leonardo Da Vinci; progetto del Comune “Innovazione e modernizzazione”; progetto “Web DPC: un sistema di supply chain farmaceutico” dell’ASL 10 Firenze, a cui appartiene anche il progetto “Modernizzazione e innovazione della prevenzione veterinaria” e infine il portale web “LineaComune.it”.
Il nome di Firenze risuona ben cinque volte tra le prime duecento storie di eccellenza della Pubblica Amministrazione. Per cinque volte Firenze risponde “presente” all’appello fatto dal ministro Brunetta. Quello fatto dal registro dei buoni, non dalla lista nera dei fannulloni, di cui forse avrete sentito parlare nei mesi scorsi, nonostante le reti televisive abbiano quasi oscurato la notizia...
Lasciamo la satira a chi (secondo politici, giudici e Chiesa) la “può” (non necessariamente “sa”) fare, e parliamo di quello che il ministro per la Pubblica Amministrazione e Innovazione, Renato Brunetta, ha fatto negli ultimi mesi.
Già in quest’ultima frase c’è un forte elemento di novità, di quelli che senz’altro fanno salire le quotazioni di gradimento verso il “mini-Ministro”: il verbo “ha fatto”. Un verbo a cui gli italiani sono stati poco abituati, dicono in tanti analisti frequentatori dei salotti televisivi, e la differenza sta tutta lì. Un Governo che fa, un Governo che agisce, un Governo decisionista come il suo Capo: così si spiega l’apprezzamento, o presunto tale, verso l’Esecutivo.
Noi non frequentiamo neanche gli ingressi degli studi tv, figuriamoci i salotti. Ma troviamo semplicistico il ragionamento. Le conclusioni, scontate, ovvie, quantomeno affrettate. Un consenso creato per creare consenso.
È senz’altro vero che in uno strano Paese come il nostro, abituato alle paralisi istituzionali dovute alla litigiosità politica (intesa come “tra politici”, non con argomenti politici alla base), verbi come “agire” e “decidere” suonano nuovi e importanti. Sponsorizzati e venduti poi dall’Uomo del Fare, come solo il Presidente del Consiglio sa proporsi, ancora di più.
Ci ostentiamo a credere che agire sia importante, ma che rimanga una differenza essenziale, non da poco, tra “fare bene” e “fare male”. Dicono: lasciateci lavorare. A parte che tecnicamente non si avrebbero comunque strumenti per farli smettere, è giusto, ci chiediamo ingenuamente, fingere che questa sia la prima volta che “li lasciamo lavorare” e che sia quindi giusto fidarsi?
Ognuno darà le sue risposte, magari facendosi due conti in tasca prima di guardare Porta a Porta o un qualche telegiornale.
Un po’ per abitudine, un po’ per fiorentinità, siamo portati ad una certa diffidenza verso chi ci governa. Spesso, se non sempre.
Come porsi dunque verso il ministro Renato Brunetta e la sua battaglia contro i fannulloni ed a favore delle “pratiche di buon governo”?
Le voci a proposito sono tante: ci sono diverse persone che sostengono che, in fondo, non è cambiato proprio nulla. Ma c’è chi dice che la verità è un’altra. Che è cambiato tutto, che i “fannulloni” adesso lavorano, col mini-Ministro che sventola percentuali da capogiro sugli effetti delle sue circolari, quasi miracolosi nel debellare le malattie. «Sono il primo ministro con poteri taumaturgici» dichiarò il baldanzoso Brunetta in tv.
Ed è qui che semmai arriva l’inghippo.
Il ministro Brunetta ha fino ad ora saputo dove andare a colpire. Indubbiamente, ha saputo affrontare uno dei vulnus più vituperati dagli italiani: l’inefficienza delle Amministrazioni Pubbliche, un vulnus divenuto quasi luogo comune. Un farraginoso, vecchio gigante con cui tutti ci siamo scontrati e da cui, pressoché sempre, ne abbiamo buscate.
Non siamo in grado di sostenere che i provvedimenti brunettiani siano realmente taumaturgici, né che essi siano al contrario solo “spot” populisti i cui effetti non modificheranno il ventre molle dell’apparato statale.
Quello che è certo è che il professore Brunetta ha saputo impersonare un ruolo accattivante, svecchiando l’immagine di un sistema agonizzante, anche attraverso concorsi, vignette, battute. Un linguaggio popolare, un “antiburocratichese” per parlare di burocrazia. E nonostante non si possa dire (non ce ne voglia il mini-Ministro) che sia un bell’uomo, è indiscutibile che Brunetta in televisione ci sappia stare. Che sappia usare il mezzo, strizzare l’occhio al pubblico, accreditandosi come uno dalla sua parte che lotta per cambiare le cose.
Se sia un affabulatore o un modernizzatore reale, è troppo presto per dirlo. In questo caso crediamo sia giusto “lasciarlo lavorare”, lasciarlo “fare”, per poi giudicare (col voto) se ciò che è stato fatto, sia stato fatto bene o sia stato fatto male.
Siamo ormai un paese di disillusi: chissà in quale dei due casi rimarremmo più sorpresi.
giovedì 15 maggio 2008
Leggi la mia conversazione con Giovanna Maggiani Chelli,
dell'Associazione tra i Familiari delle Vittime della Strage di via de' Georgofili,
pubblicata su Informa Firenze - maggio
martedì 13 maggio 2008
Chiedi chi era... PEPPINO IMPASTATO
Chiedi chi era Peppino Impastato. Chiedilo a chi l’ha conosciuto, a chi ha sognato, lottato, sofferto con lui, per lui. Chiedi chi era Peppino Impastato: Peppino era un ragazzo, un ragazzo di Sicilia, siciliano di Cinisi, siciliano geniale e arrogante, e ribelle. Peppino era un figlio: figlio di un padre mafioso e di una madre divenuta leggenda.
Peppino Impastato era un rivoluzionario, un’idealista. Scriveva poesie, Peppino, mettendo in rima la protesta non violenta contro la violenza della mafia, del potere politico colluso e del silenzio assordante dell’accondiscendenza; urlava il suo no dai microfoni di Radio Aut, Peppino, declamando la sua Commedia non divina ma cretina, dove i peccati si dicevano e i peccatori si sbeffeggiavano per nome. Quei peccatori che sarebbero stati, il 9 maggio 1978, i suoi aguzzini; quei peccatori che hanno violentato la sua memoria, la sua lotta, hanno infangato o ci hanno provato, ma senza riuscirci, non fino in fondo.
Trenta anni fa Peppino Impastato era brandelli di corpo sparsi intorno a una ferrovia. Pezzi di carne come semi di speranza seminati sulla terra di Sicilia e di Italia, così assetate di speranza, legalità, di rivoluzionari in grado di opporsi con cultura di vita a una non cultura di morte. Terre innaffiate con sangue innocente di persone innocenti in cui la speranza non germoglia, ma annega.
Chiedi chi era Peppino Impastato.
Chiedi chi era Peppino Impastato e poi deponi un fiore sulla tomba italiana della libertà. Che non è mai morta, perché mai è stata viva, se non nella voce e nei brandelli e nel sangue.
Chiedi chi era Peppino Impastato, e capirai perché oggi Mangano è un eroe.
Perché abbiamo perso, Peppino. Anche se ogni tanto ci fanno pensare che ci sia stata e ci sia ancora una partita da giocare.
Peppino Impastato era un rivoluzionario, un’idealista. Scriveva poesie, Peppino, mettendo in rima la protesta non violenta contro la violenza della mafia, del potere politico colluso e del silenzio assordante dell’accondiscendenza; urlava il suo no dai microfoni di Radio Aut, Peppino, declamando la sua Commedia non divina ma cretina, dove i peccati si dicevano e i peccatori si sbeffeggiavano per nome. Quei peccatori che sarebbero stati, il 9 maggio 1978, i suoi aguzzini; quei peccatori che hanno violentato la sua memoria, la sua lotta, hanno infangato o ci hanno provato, ma senza riuscirci, non fino in fondo.
Trenta anni fa Peppino Impastato era brandelli di corpo sparsi intorno a una ferrovia. Pezzi di carne come semi di speranza seminati sulla terra di Sicilia e di Italia, così assetate di speranza, legalità, di rivoluzionari in grado di opporsi con cultura di vita a una non cultura di morte. Terre innaffiate con sangue innocente di persone innocenti in cui la speranza non germoglia, ma annega.
Chiedi chi era Peppino Impastato.
Chiedi chi era Peppino Impastato e poi deponi un fiore sulla tomba italiana della libertà. Che non è mai morta, perché mai è stata viva, se non nella voce e nei brandelli e nel sangue.
Chiedi chi era Peppino Impastato, e capirai perché oggi Mangano è un eroe.
Perché abbiamo perso, Peppino. Anche se ogni tanto ci fanno pensare che ci sia stata e ci sia ancora una partita da giocare.
(Gianni Somigli - Informa Firenze - maggio)
Dedicato al presidente del Senato della Repubblica italiana, Renato Schifani, siciliano.
lunedì 21 aprile 2008
CANAGLIA ROMANA!
C'è solo una spiegazione. Solo una, plausibile, quantomeno accettabile. Su dodici nomi di ministri che circolano, una decina sono da comiche. Bossi, Calderoli, Castelli, Maroni, Tremonti, Bondi, Bonaiuti, La Russa, Vito. Rimangono un paio di posti liberi. Avvertite Benny Hill.
C'è solo una spiegazione: un giorno ci sveglieremo, e un messaggio a reti unificate ci informerà che siamo su SCHERZI A PARTE.
Il bello è che ne saremo felici, e che ci vorremo pure restare.
Non cambiate canale.
Visto che le promesse sono state mantenute?
In una settimana la spazzatura è sparita.
Dai tiggì.
venerdì 11 aprile 2008
Allo specchio
Spesso accuso me stesso di non essere particolarmente portato all'ascolto. Eppure, mi dico, è una cosa importante. Una delle cose che può fare la differenza tra un uomo e un Uomo.
Diverse volte accuso me stesso, e me ne dolgo, di non provare curiosità per gli altri. Per i loro problemi, per le loro storie, per le loro idee. Eppure dovrebbe essere una priorità di chi, come me, vuole o vorrebbe fare questo mestiere. Capita, eccome se capita.
Poi si avverano occasioni in cui mi rendo conto che sono troppo duro con me stesso e, forse, troppo morbido nei confronti degli altri. Altalenando tra estremi opposti, insomma, mi barcameno in questi pensieri e in questi giudizi.
Immagino di avere la necessità di essere il più oggettivo possibile nel giudizio su me stesso. Altrimenti, si casca nel mero esercizio di autoesaltazione o di autopunimento. Estremi opposti, tra un Oscar Wilde e un Terenzio, un inutile oscillazione. So, però, che il giudizio oggettivo verso se stessi è umanamente impossibile. Definirei anzi i due termini, "giudizio" e "oggettivo" una sorta di ossimoro, due termini in conflitto tra loro.
Succedono cose, nella vita quotidiana, che ti portano a riflettere su te stesso. Nell'ultimo periodo penso di aver avuto una maturazione di non poco conto. Ho imparato, e nell'imparare stesso sta il valore dell'ascolto, ad aspettare un attimo prima di parlare. A ragionare: cioè, ad esercitare la ragione. Credo di riuscire, o almeno di impegnarmi a farlo, a dare un valore "netto" alle parole che mi vengono rivolte, cercando di scavare in esse, di visitarne il contesto. Certo, non sempre e non per tutti, e ci mancherebbe.
Quello che mi chiedo è: esiste un limite?
Anzi: esiste un "giusto" limite?
Anche in questo caso, penso che l'oggettività non esista. I limiti personali sono soggettivi per definizione, al pari delle risposte alle domande che indagano sul proprio io. Soggettivi e variabili, mutabili e cangianti, a seconda dei giorni, degli umori, delle certezze e dei dubbi che affollano la mente e la pancia via via che si cammina.
Interrogativi che rimangono e che, credo, rimarranno per sempre, fino all'ultimo minuto. Anche se, a dire il vero, un atteggiamento di questo genere può essere esclusivo, escluderti da certi giri di chi domande non se pone, mai.
Passare la vita a farsi domande è già un buon progetto di vita, in fondo.
sabato 5 aprile 2008
Come cambiano i tempi/2
Una volta, i "freak", gli scherzi di natura, venivano bruciati vivi, uccisi, torturati, umiliati. Montagne di uomini e donne più alti, più bassi, più grassi.
Uomini-gatto, donne-scimmia massacrati.
A distanza di secoli, vanno in tv da Barbara D'Urso.
A distanza di secoli, vanno in tv da Barbara D'Urso.
Per la serie: si stava meglio quando si stava peggio.
E continuavano a chiamarlo progresso...
Come cambiano i tempi/1
Anche a Hitler e Mussolini fu permesso di parlare.
Ah, se solo i tedeschi avessero lanciato uova e pomodori a Hitler...
I politici italiani di oggi, certo, gli avrebbero offerto la loro incondizionata solidarietà.
Ah, se solo i tedeschi avessero lanciato uova e pomodori a Hitler...
I politici italiani di oggi, certo, gli avrebbero offerto la loro incondizionata solidarietà.
mercoledì 2 aprile 2008
Popper non serve solo per il dietro
Come fanno notare in questi giorni autorevoli esponenti del giornalismo italiano e non solo, adesso che vengono meno -o quasi- le risse (anche verbali...) tra i politici, quasi quasi ne sentiamo la mancanza. E ci lamentiamo: che campagna moscia!
Anche Sartori lo nota oggi nel suo editoriale sul Corriere, declinandolo però sul piano della colpa al candidato premier Veltroni, il quale dovrebbe, secondo il politologo fiorentino, alzare i toni per recuperare e tentare l'impresa disperata.
Tutto questo, se ancora ce ne fosse bisogno, dimostra con estrema chiarezza un fatto semplice al quale ci dobbiamo serenamente rassegnare: l'Italia e gli italiani sono un popolo democraticamente e politicamente non maturo.
Un popolo abituato a spaccarsi su tutto, prestando il fianco delle proprie divisioni alle strumentalizzazioni politiche ora di una parte, ora dell'altra. Spaccature che vicono dell'odio per il nemico, sobillato a dovere dal politico di turno.
La storia è vecchia come il mondo.
Anzi, come un po' dopo: è dall'introduzione della "divinità unica", infatti, che la visione del mondo e della vita è divenuta duale. Bene contro male, e il male dev'essere distrutto.
Prima di questa vera rivoluzione, filosofica, sociologica, antropologica, il bene e il male esistevano in misure confuse e fuse tra loro. Lo dimostrano le divinità greche: un po' buone, un po' cattive, preda di passioni, ire, e ogni tratto umano. Dall'entrata in scena delle religioni monoteiste, invece, la spaccatura tra il bene e il male è divenuta irreparabile; nello stesso tempo, il bene è facilmente -superficialmente?- identificabile, così come il male.
La famosa "visione manichea", insomma. Una teoria che trova riscontro nei tempi bui del medioevo e dei guelfi contro i ghibellini, di Pisa contro Firenze, e così via. Una teoria che, più recentemente, sta alla base (o meglio, nel retroterra) del Mein Kampf e del Nazismo. O, ancora più recentemente, lo schema in cui si muove e vive la vita politica di Silvio Berlusconi: se prima erano ebrei, massoni e borghesia, adesso il nemico sono i "comunisti", i magistrati, i giornali.
Tale teoria è stata sostenuta qualche tempo fa da Karl Popper, che qualcosa di sensato lo ha detto.
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Avere un nemico da combattere e abbattere, in qualche modo, è rassicurante.
Crea un fortissimo spirito di identificazione, rafforza l'appartenenza a un "Noi" espressione del bene contro gli "Altri", vessillo del male.
Ora che queste categorie ci vengono -o quasi- a mancare, in una campagna elettorale all'insegna del "volemose bene", si ha la sensazione che alle persone-elettori vengano a mancare i punti di riferimento che ne hanno segnato la vita politica imbevuta e imperniata di religiosità.
Italiani vs austriaci; fascisti vs antifascisti; repubblicani vs monarchici; DC vs Pci; antiabortisti vs abortisti; prima repubblica vs mani pulite e giustizialisti vs garantisti; berlusconiani vs antiberlusconiani. E così via, perchè ognuna di queste categorie contiene ulteriori sottospaccature: basti guardare alle scissioni di comunisti in due, di fasciti in due, e così via.
Non appena il clima politico si fa vagamente più disteso, interviene uno spaesamento pienamente giustificabile da un punto di vista antropologico. Le bussole impazziscono. Questo, palesemente, misura il grado di pochezza politica e culturale della maggior parte del popolo italiano. Anche l'elettorato di appartenenza, in qualche modo, rischia di vedere affievolito il proprio attaccamento al "Noi", al "Bene", per sconfiggere e distruggere il "Loro", il Male.
Se non c'è un nemico da distruggere, perché mobilitarsi?
Un atteggiamento poco maturo che si riflette nella pochezza del dibattito politico che sfugge allo scontro. Ma che, tuttavia, segna la realizzazione di un'evoluzione del mondo segnata dagli ultimi decenni: una personalizzazione sociale sfociata in uno spietato individualismo che fa di ognuno di noi, a seconda della bisogna, un cittadino, un lettore, un elettore, un consumatore. Così come le vaschette di insalata monoporzione, anche la politica veste i panni della soluzione individuale da consumare sprofondati in una poltrona con la mente immersa e sommersa in uno schermo televisivo che ci racconta le stesse promesse di trenta, quaranta anni fa.
Viene dunque meno la logica del "bene comune", dell'ideale, dell'ideologia.
Cosa fare, dunque?
Le soluzioni plausibili non possono che essere, guarda caso, due e in conflitto tra loro.
Numero uno: aridatece le vecchie risse. In cui uno non capisce nulla di nulla, ma in cui si offende l'altro, e ci si diverte tutti insieme. Così ci sentiamo tutti più tranquilli e facciamo il nostro dovere di elettori delle forze del bene.
Numero due: questa, per la prima volta, potrebbe essere il vero approdo della democrazia reale in Italia. Imparando dagli errori degli ultimi sessanta anni, mettendo a punto una legge elettorale decente e abolendo il bicameralismo perfetto, istituendo una sorta di responsabilità soggettiva del politico, non resta che aspettare e coltivare una nuova cultura democratica. Abbandonando la politicizzazione di tutto l'esistente e lo scibile umano, mettendo più in rilievo il merito e la capacità individuale "laica".
Insomma, tornare indietro o guardare avanti.
Dato che la scelta da fare è nelle mani di chi dal passato viene, da coloro che "dietro" si sentono a loro agio -in senso figurato e non-, i pronostici non fanno certo ben sperare.
"Le magnifiche sorti, e progressive", ora come allora, rimangono sulla carta.
Igienica, temiamo.
sabato 29 marzo 2008
La decenza ha un limite?
Va bene che, non troppo tempo fa, Silvio Berlusconi citava l'Elogio della Pazzia come uno dei testi fondanti della sua cultura, del suo carattere, della sua smisurata personalità. Va bene, certo, almeno fino al momento in cui si rimane nei limiti della decenza.
C'è qualcosa di comico, di profondamente comico, in quello che accade in Italia. Una comicità che un po' di anni addietro era ricalcata, dilatata, ma non storpiata, nei film con Totò, con Albertone, e compagnia.
Scritto da uno sceneggiatore di uno di quei film, o da un cabarettista, o perché no da un commediografo del grottesco e dell'assurdo, il copione della vita politica (ma non solo) italiana non potrebbe essere più delirante.
Da tre o quattro giorni, il Re del PDL è tornato a urlare ai brogli, che, si sa, sono prerogativa naturale e storicamente accertata della Sinistra e delle Sinistre. Ieri, l'ultimo straziante grido di allarme.
Tutto secondo le regole che da quindici anni siamo costretti a sorbire, se non che, proprio ieri, il colpo di scena: due presidenti di seggio, in Sicilia, a Palermo, arrestati per aver falsificato almeno (!) quattrocento schede in favore di una lista in appoggio al sindaco italoforzuto di Palermo, Cammarata.
Che dire: presidente Berlusconi, dovrebbe scegliere meglio i suoi seguaci. E' proprio lì che si annidano i peggiori comunisti, a quanto pare.
La domanda è: la decenza, ha un limite?
La risposta più evidente, ogni giorno più evidente, è no. Oppure sì, ma il limite si sta spingendo sempre più in là. E guardate che mica è facile. Ma è per questo che Dio ci ha spedito quaggiù il Re.
Se invece si volesse fare un discorso un po' serio ed approfondito, ci si dovrebbe chiedere: come mai nemmeno durante l'egemonia Dc i risultati elettorali in Sicilia avevano avuto esiti così clamorosi? Cappotto, tutti i seggi al Senato al Centrodestra. Una cosa mai vista. Mai vista perchè praticamente impossibile ma resa possibile da straordinarie forze non sovrannaturali quanto certamente sovralegali, diciamo.
Volendo fare un discorso un po' più serio, dovremmo chiederci: come mai non un giornalista, ieri, al grido di allarme di Berlusconi, ha risposto facendo notare che due dei suoi erano stati messi in manette esattamente per quel reato?
Il sonno della coscienza genera mostri, si sa; il dormiveglia dell'idiozia sarebbe ancora peggiore, se un comportamento del genere potesse essere ascritto all'ignoranza, all'incapacità, e così via. Invece no: c'è malafede, c'è strumentalità nelle domande non fatte, c'è collusione.
C'è volontà di far parte del gioco dei grandi, e di farne parte raccattando le briciole.
E' questo il senso dei cortei di giornalisti che seguono le corti. Una manica di accattoni, di morti di fame, magari con una buona penna. Avere una buona scrittura non significa essere un giornalista. Essere morti di fame non ti costringe a calarti le brache.
E non mi si venga a raccontare che è sempre stato così.
So anche io che il sistema funziona in questo modo. E che uno, da sè, non può far nulla. E allora? Questo esime dal provarci? Almeno dal provarci?
Il giornalista ha sì il dovere di raccontare. Anzi: quello è il dovere del cronista. Il giornalista dovrebbe avere, anzi deve, il compito sì di raccontare, ma la verità. Una cosa complicata, certo, eppure tanto semplice.
Perchè prima si deve avere la volontà di farlo.
Volontà.
mercoledì 26 marzo 2008
Alla fine, sono punti di vista
Chissà. Chissà cosa starà studiando in queste ore il nostro prossimo Ex Capo dell'Opposizione.
Quali saranno gli stratagemmi mediatici per contrastare l'attacco arrivato a sorpresa nientemeno che dal Wall Street Journal. Dico: il Wall Street Journal.
Chissà, nello studiolo di Palazzo Grazioli, insieme ai fidi consiglieri, se il prossimo Premier è agitato. C'è da immaginarselo. In faccia, l'espressione di chi è stato scoperto e che, per le prima volta, non può dare la colpa all'accusatore. Certo, nel limite dell'espressività concessa dalla plastica, dal trucco e dal parrucco.
E ci sarà bisogno, stavolta, che i migliori talenti della propaganda italoforzuta superino se stessi. Perchè stavolta, la questione non si risolve tacciando la prestigiosa testata statunitense di comunismo militante, di stalinismo applicato. Viene complicato pensare che la redazione del WSJ sia in mano alla solita sinistra italiana.
Il colpo è duro, sicuramente. E' per questo che passa (e passerà) praticamente sotto silenzio. Anche perchè, nel gioco del "non famose male" di questa tiepida (almeno finora) campagna elettorale, forse solo il povero ma coraggioso PierFerdy impugna e scaglia pietre di tale peso.
Non la Sinistra arcobalenata, impegnata in anacronistiche definizioni di padroni e popolo. Non il PD del nuovo corso, pacifico e superiore.
Tuttavia, se il Capo di una coalizione travestita da Partito unico viene definito dal gotha del giornalismo economico-finanziario come uno dei peggiori corporativisti moderni, contrariamente alle autodefinizioni che parlano di liberalismo e libertà economica, qualche domanda dovrebbe essere posta. Corporativismo che fa da sempre rima con Fascismo, Stalinismo, Comunismo. Solo questioni di metrica? Corporativismo e liberismo, zenit e nadir dell'economia.
In Italia, tutto tace.
In Italia, essere ricchi basta per essere, anzi, autodefinirsi liberali.
La "proposta liberale" dal sapore vago di promessa elettorale per salvare Alitalia oggi è: Alitalia la salvo io. La compro io attraverso i miei figli o una cordata, magari fatta da mio fratello insieme ai miei figli, ma i soldi per farlo io col kispios che ce li metto, me li deve dare lo Stato con un prestito ponte.
Ora: tutti, ma proprio tutti, sanno che questa è una cazzata clamorosa. Se l'hanno capito anche al WSJ, qualcosa vorrà dire. Per esempio, che se nel Partito che si proclama baluardo e difensore della ricetta liberale viene candidato il leader della rivolta dei tassisti contro la (timida) liberalizzazione del settore, qualcosa non torna. Che passare dall'iperliberismo globalizzato all'iperprotezionismo globalizzato in cinque anni non è un'operazione seria.
Resterebbe da dire chi ha amministrato Alitalia (e anche Malpensa) negli ultimi quindici anni. E quando si scorrono i nomi, le appartenenze politiche e i "nominatori", le perdite accumulate e le buonuiscite assegnate, sarebbe difficile, da giornalista ma prima ancora da persona normale, non fare una domanda al presidente Berlusconi: "Signor Cavaliere, ma ci ha preso tutti per scemuniti?". La risposta, certo non banale, non potrebbe che essere una: "Non tutti. Mi basta il 44,7%, secondo i sondaggi".
Alla fine, sono punti di vista.
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